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GiusEPPE Billanovich La famiglia romana dei libri XXVI-XL di Livio, «Studi petrarcheschi» 6 (1989) 87-89. | |||
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Commento e precisazione della tradizione liviana in rapporto al mio contributo Livio in Tolomeo da Lucca, «Studi petrarcheschi» 6 (1989) 43-52. Prima della stampa, il prof. Giuseppe Billanovich († 2.II.2000) me ne aveva inviato copia dattiloscritta, accompagnata da lettera, Padova 31.XII.1989 (mio carteggio personale, alla data): «Studi petrarcheschi, VI, con i pezzi liviani suo, di Ross, di Zanella, è in tipografia. Mi sono permesso di aggiungere una glossa mia - che spero lei approvi - derivata dalla sua presentazione di Tolomeo. Eccola la copia per lei. (...)». |
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<1.> E. Panella ha qui dimostrato (pp. 43-52) che Tolomeo da Lucca conobbe la III Decade e se ne valse nei suoi trattati. Precisamente fra Tolomeo citò due volte la dichiarazione di ideale governo romano che Livio fa esporre a Scipione l'Africano. Prima verso l'anno remoto 1280 della Determinatio compendiosa de iurisdictione imperii summi pontificis trascrisse da Livio, XXVI 49, 7-8; e vent'anni dopo, tra Lucca e Firenze, completando il De regno di san Tommaso d'Aquino ripetè quella dichiarazione e la allargò attingendo al capitolo successivo, XXVI 50, il ricordo del connesso esempio di pudicizia di Scipione, e anzi spingendosi fino a 51,1-2.
Se in tante pagine, di storia e di diritto pubblico, durante una vita lunghissima Tolomeo insistè a riprendere solo dai capitoli 49-51 del libro XXVI, non avrà mantenuto presso di sé una III Decade; e nemmeno avrà disposto di questo testo, che in cosí alta età restò più ignoto che raro in quella regione, in uno dei conventi della sua Toscana: a San Romano della patria Lucca; o a Santa Maria Novella di Firenze, dove il lettore vorace fra Remigio Girolami che lí gli vive accanto non conobbe Livio (Panella, 46-48). Ma avrà incontrato già in uno dei suoi spostamenti giovanili un codice con la III Decade e se ne sarà trascritto quella sentenza memorabile per lui trattatista politico e il contiguo esempio predicabile della pudicizia di Scipione. Per fortuna la citazione riportata nella Determinatio e ripetuta nel De regno rivela la fonte a cui Tolomeo attinse; e che ci porta appunto fuori della Toscana. La famiglia normale della III Decade, discessa dall'archetipo del s. V Parigino lat. 5730, a XXVI 49, 8 legge "venisse". Invece l'altra famiglia, che con disposizione irregolare ammassò le tre pendadi dei libri XXVI-XL, e che per lungo tempo rimase celata, legge "venisse enim" (Livio di Oxford, vol. IV). Tolomeo tanto nella Determinatio |p. 88| che nel De regno cita dal libro XXVI e riporta "venisse enim"; e dunque assunse le lezione della insolita e incompleta seconda famiglia. Questa famiglia si salvò nella biblioteca del palazzo papale a San Giovanni in Laterano[1]. Perciò Tolomeo avrà raggiunto la insolita tradizione in una precoce sosta a Roma. Così nel 1272 mosse da Roma, con S. Tommaso d'Aquino, verso Napoli: Tolomeo, Historia ecclesiastica nova, XXIII cap. VIII e XVI: «Cum enim ego cum ipso venirem de Roma...» (RIS1, XI 1169 e 1173).
Più tardi - una trentina d'anni dopo del 1280 - Avignone diventò sede papale; e vi confluirono uomini e libri: appunto la I, la III e persino la rara IV Decade e dal 1309 anche fra Tolomeo: al seguito del cardinale Leonardo Patrasso, zio di Bonifacio VIII, e vi rimase, pare, fino al 1318[2].
<2.> Subito dopo "venisse" o "venisse enim" l'una e l'altra famiglia danno "in populi romani potestatem qui beneficio quam metu obligare homines malit" e invece Tolomeo presenta, sia nella Determinatio che poi nel De regno, «obligare homines malunt»: ma solo, credo, per una comprensibile variante stilistica; che probalmente egli già aveva inserito nei suoi appunti e quindi mantenne tanto nella Determinatio che nel De regno. Tolomeo non ricorse al Laurenziano 63.21: dove una squadra di copisti trascrisse a Roma dopo la metà del s. XII l'intera III Decade della famiglia normale, e dove dei correttori aggiunsero nei libri XXVI-XXX sui margini le varianti e in fine gli ultimi capitoli del libro XXX dalla famiglia dei libri XXVI-XL; e che godé di una solida fortuna nel Trecento[3]. Infatti il Laurenziano offre nel testo la lezione normale "venire"; e nel margine la variante "venire enim": anzi che "venisse enim", come nella famiglia XXVI-XL. Tolomeo però non |p. 89| avrà incontrato i libri XXVI-XXX di questa famiglia; che nemmeno noi riusciamo a raggiungere; ma uno dei vaari esemplari, in buona parte superstiti, dove la lezione normale era stata medicata con le varianti della famiglia rara: come appunto il Laurenziano 63.21 e come per mano del Petrarca il suo Harleiano 2493 della British Library[4]. E il giovane Tolomeo raggiunse altre opere nelle fornite riserve romane?
<3.> Tolomeo bene appartenne alla schiera robusta dei domenicani toscani che tra Due e Trecento contribuì a trasformare rapidamente la Toscana ancora provinciale e ancora poco provveduta di libri nelle rigogliosissima Toscana di Dante, del Boccaccio e, nonostante la sua pertinace assenza, ma attraverso le molte amicizie che lì contrasse e quindi i molti scambi che vi mantenne, anche del Petrarca: insomma nella fonte della lingua italiana e nella capitale della nuova letteratura e della nuova arte per l'Italia e per l'Europa.
[1] Billanovich, La biblioteca papale salvò le Storie di Livio, «Studi petrarcheschi» 3 (1986) 1-115; Billanovich, Il testo di Livio. Da Roma a Padova, a Avignone, a Oxford, «Italia medioevale e umanistica» 32 (1989) 53-99.
[2] I. Taurisano, I domenicani in Lucca, Lucca 1914, 64 e 80 n. 1. [BiblDom XXXIX.5.2]
[3] Billanovich, La biblioteca 8, 34-35, 43-45, 49, 77-78, 82, 85-87, 90, 99-102, 105-106, 113-114.
[4] Billanovich, La tradizione del testo di Livio e le origini dell'Umanesimo, vol. II, Il Livio del Petrarca e del Valla..., Padova 1982.