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(... 2. Cronologia delle opere...)

Valore cronologico dei rimandi

Il De bono pacis cita e suppone il Liber sextus decretalium promulgato da Bonifacio VIII il 3.III.1298 (cf. n° 10a-b); cita e suppone la decretale Quod olim di Benedetto XI del 12.V.1304 (n° 11). Il trattato si propone di discutere se «vi possa essere remissione d'ingiurie e danni fatti e ricevuti concordata tra le comunità (città, castelli ecc.) senza l'assenso di tutt'e singole le persone delle comunità, anzi contro la volontà di talune persone che abbiano subìto danni, anche ecclesiastiche» (De bono pacis f. 106va). Vi si sottende il tentativo di pacificazione cittadina dopo le violenze, vendette, bando, guasto dei beni seguìti in Firenze alla presa di potere dei guelfì neri. Charles Till Davis propone di restringere i tempi di composizione tra maggio e luglio 1304 (DAVIS, Remigio de' Girolami 109). La dizione «papa Benedictus XI modificat illam decretalem...» (n° 11) non sembra convenire a un riferimento a papa ancora vivente? Il breve papato del domenicano Benedetto XI va dal 22.X.1303 al 7.VII.1304. Il De bono pacis, in ogni modo, ha un solido appoggio cronologico sulla decretale Quod olim (12.V.1304), cui non dev'essere di molto posteriore.

De bono comuni è intimamente connesso per tema, per utilizzazione di fonti, per due lunghi brani testuali comuni, al De bono pacis. Firenze, ripetutamente e dolorosamente evocata, è il centro d'interesse (n° 15). Il «bene comune dev'esser preferito al bene particolare, e il bene della moltitudine (città) a quello delle singole persone» (De bono comuni c. 1, f. 97ra), è l'impegnativa tesi lungamente sviluppata e tenacemente difesa in tutto il trattato. Questo, come abbiamo detto, presenta notevoli affinità tematiche e contestuali al De bono pacis. Suppone, come ritiene Lorenzo Minio-Paluello, la crisi e i mali cittadini seguiti al bando del 1302.

L. MINIO-PALUELLO, Remigio Girolami's “De bono communi”: Florence at the time of Dante's banishment and the philosopher's answer to the crisis, «Italian Studies» 11 (1956) 59: «The topical references to the upheavals of 1302, the year which brought exile to Dante and disaster to Remigio's family, date this treatise [De bono comuni] within a very short space of time». C. DAVIS, An early Florentine political theorist: fra Remigio de' Girolami, «Proceedings of the American Philosophical Society» 104 (1960) 668a: «In the treatise De bono comuni, evidently written soon after the expulsion of the Whites in 1302, he lamented the disorders in Italy and in Florence...».

Annotiamo il riferimento a Luigi IX re di Francia «beatus» (n°12); lo si ritrova nel De via paradisi (n° 2). Re Luigi fu canonizzato nel 1297. Ma Remigio, o lo stesso copista A, non poteva al tempo del riordinamento e trascrizione delle opere “aggiornare” il testo inserendo l'attributo di “sanctus” o “beatus” laddove originariamente (prima della canonizzazione) era assente? Possibilissimo in linea di principio, data la natura dell'integrazione. Ma nel sermone VIII De pace si ha un incidente che suggerisce il fatto contrario. Il testo in colonna di mano A dice: «Ex exemplo de Ludovico rege Francorum qui asserebat...» (cod. G4, f. 359vb). È solo mano B che interviene e aggiunge in margine, con segno di richiamo, «sancto» (f. 359v, mg. d.; cf. ed. DE MATTEIS, La «teologia politica… p. 88, dove però non si annota la diversità delle mani). La redazione originale non doveva comportarlo, e si può dunque ragionevolmente inferire che tale sermone è anteriore al 1297. In ogni caso, il De bono comuni e il De via paradisi hanno altri elementi a favore d'un termine post quem più recente che non la canonizzazione di Luigi IX.

Un blocco di scritti, in forza del genere letterario legato alle strutture accademiche della scuola teologica medievale, dovrebbe esigere il titolo magistrale: i due quodlibeti, le determinationes che sono De uno esse in Christo e Venditio ad terminum. La questione disputata (ordinaria o quodlibetale), sia nella fase della pubblica disputa che in quella terminale della determinatio, è atto proprio del magister, sebbene anche il baccelliere prenda parte alla disputa e vi svolga il ruolo di respondens sotto la guida e la responsabilità del maestro (P. GLORIEUX, L'enseignement au moyen âge. Techniques et méthodes en usage à la Faculté de Théologie de Paris au XIIIe siècle, «Archives d'Histoire Doctrinale et Littéraire du Moyen Age» 35 (1968) 123-34). Si potrebbe porre la questione: valeva questo anche per gli studia regionali degli ordini religiosi che non erano università? A dire il vero, degli studi regionali, della loro interna organizzazione e delle loro strutture didattiche e accademiche, sappiamo poco (vedi comunque il volume AA.VV., Le scuole degli ordini mendicanti (secoli XIII-XIV), Todi 1978). A differenza delle università, non ne possediamo alcuno statuto, se pure ne siano esistiti. Se ne intravedono frammenti di vita negli Acta dei capitoli generali e provinciali degli ordini religiosi. Ma questi documenti mirano a ben altro che a descriverci lo stato di diritto degli studi regionali. Certo è che il capitolo generale dei domenicani Oxford 1280 riserva la disputa quodlibetale agli studia generalia e alla competenza dei maestri:

«Inhibemus ne lectores disputent de quolibet nisi sunt magistri in theologia, nisi in locis in quibus secundum ordinem generalia studia vigent, nisi forte ex causa aliqua in locis aliquibus specialibus aliud sit consuetum, aut nisi prioribus provincialibus in suis provinciis aliud videatur» (MOPH III, 208-09; cf. IV, 17/17-19).

Nel capitolo provinciale di Arezzo 1315, fra Uberto di Guido da Nipozzano (contado fiorentino), baccelliere e presumibilmente in ruolo di respondens sotto la direzione del maestro, è severamente punito perché nel corso d'una disputa quodlibetale «contra reverentiam sui lectoris superbe et arroganter multa dixit, quod etiam inauditum est, determinando in cathedra contra determinationern ipsius sui lectoris» (MOPH XX, 197). Un baccelliere ha osato determinare, porre fine cioè alla disputa, proponendo la soluzione finale e autorevole. Cosa inaudita! Ma la preclusione del baccelliere alla disputa quodlibetale non era stato in passato un dato di fatto assoluto. Il testo del capitolo generale Oxford 1280 fa intravedere una prassi contraria, almeno per via di fatto, e comunque riconosce le dispense: «nisi forte ex causa aliqua in locis aliquibus specialibus aliud sit consuetum, aut nisi prioribus provincialibus in suis provinciis aliud videatur» (MOPH III, 208-09). E per anni anteriori si hanno testi in cui capitolo provinciale e priore provinciale abilitano il lettore alla disputatio senza che si faccia menzione del titolo magistrale, a meno che non si debba intedere una disputa d'esercitazione (MOPH III, 197/1-2; XX, 43/18-19). Ma contro dispense eventuali, o abusi in contrario, la vasta produzione letteraria del quodlibeto e tutto quanto si sa di tale genere di disputa nel XIII e XIV secolo, nell'università o negli studia dei Mendicanti, stanno perentoriamente a favore del grado magistrale come requisito accademico perché si possa indire, soprintendere e concludere (determinare) la questione disputata a quolibet de quolibet. Fatto scontato se passa in bocca ai poeti:

«Sì come il baccialier s’arma e non parla | fin che ‘l maestro la question propone, | per approvarla non per terminarla, | così m’armava io d’ogne ragione» (Dante, Parad. XXIV, 46-49).

Partiamo col Quolibet II di Remigio. In un sermone de tempore lo si denomina “quodlibeto perugino”: «Ve duplici corde. Hoc enim est omnino monstruosum quod natura non patitur, scilicet quod unus homo habeat duo corda, sicut potest babere duo capita salvo uno corde. Vide in quolibet perusino» (cod. G4, f. 231ra). La questione dell'uomo mostruoso dalle due teste è discussa in Quolibet II, a. 9. Quodlibeto disputato a Perugia, «apud Perusium in curia» (n° 17a-b), cioè nello studio del convento della città in cui risiedeva la curia romana. Questo il senso, nei documenti ufficiali degli ordini mendicanti, della formula e d'altre simili (Il “lector romanae curiae). Nessuna testimonianza dunque che Remigio avesse insegnato nello studium della curia papale, come si tramanda nella letteratura remigiana a partire dall'explicit. Lo studium curiae degli ordini mendicanti era studio generale, che sembra esigere, nella prassi dei Predicatori, una reggenza col grado magistrale. Nel caso del Quolibet II di Remigio, in ogni modo, lettorato «in curia» e titolo magistrale trovano un'eccellente coincidenza nella biografia del frate fiorentino. Il magistero in teologia fu conferito a Remigio da Benedetto XI tra 22.X.1303 e 7.VII.1304, nella «curia romana» o «in pape palatio», come dice l'articolo biografico della Cronica fratrum. Benedetto XI lasciò Roma in marzo 1304 e in marzo-aprile dello stesso anno stabilì la curia in Perugia. In agosto e ottobre 1301 Remigio risulta presente a SMN di Firenze; il capitolo provinciale di Perugia, luglio 1302, lo nomina definitore al capitolo generale; in maggio 1303 partecipa di fatto al capitolo di Besançon. Mentre nel 1303 (anche 1304?) e 1305 lettore fiorentino è fra Giordano da Pisa, la presenza di Remigio nel convento domenicano di Perugia è positivamente accertata a partire da aprile-maggio 1304, e si protrae almeno per tutto il 1305. A Firenze lo ritroviamo per la prima volta in luglio 1307 (Studio 217-25), mentre la presenza fiorentina di Giordano da Pisa è testimoniata ancora nel 1306 e 1307. E si hanno buone ragioni per ritenere che Remigio sia rimasto a Perugia per qualche altro tempo ancora oltre l'ultima data documentata (fine 1305) prima che rientrasse definitivamente a Firenze. Il capitolo provinciale di Rieti, settembre 1305, ordina tra le assegnazioni dei lettori:

«fratrem Remigium magistrum in theologia ex commissione nobis a magistro ordinis facta assignamus in doctorem in studio florentino; si autem ipsum illue ire non contigerit, ex nunc prout ex tunc ponimus in eodem studio lectorem fratrem Iordanem Pisanum» (MOPH XX, 154).

Negli atti del medesimo capitolo fra Giordano è detto «lector florentinus» (MOPH XX, 160/27-28). Quale congiuntura dettò ai capitolari di Rieti 1305 l'ordinazione condizionale «si... illuc ire non contigerit»?

Ecco quanto dovrebbe render ragione della disposizione capitolare e legare i fatti che l'hanno provocata. La provincia Romana dei frati Predicatori - e lo stesso maestro dell'ordine - provvedono con speciale cura il personale del conventus curiae, cioè del convento domenicano situato nella città dove risiede la curia romana (CREYTENS, Le “Studium Romanae Curiae”..., AFP 12 (1942) 50-53). Remigio è lettore nel convento perugino da quando Benedetto XI vi aveva trasferito la propria residenza. Il papa muore il 7.VII.1304. A partire dal 18.VII.1304 segue il lungo e tormentato conclave perugino che si conclude con l'elezione di Bertrand de Got, arcivescovo di Bordeaux (5.VI.1305).

Fra Francesco dei Chiermontesi «obiit Perusii <7.VIII.1304>... existente ibidem curia sed vacante» (Cr SMN n° 187). C. EUBEL, Hierarchia catholica Medii Aevi, I, Monasterii 1913, 13. Per le vicende del conclave perugino cf. R. MORGHEN, Il cardinale Matteo Rosso Orsini, «Archivio Società Romana di Storia Patria» 46 (1923) 357-64. Remigio accenna, anche se fugacemente, alle vicende del conclave nel sermone per l'elezione di Clemente V, Ego quasi trames aque immense (Eccli. 24, 41): «… videtur propositum verbum [«Flavit spiritus eius et fluent aque», Ps. 147, 18] congruere et presenti tempori, idest solempnitati Spiritus Sancti et facte electioni et persone electi in summum pontificem, idest domino Beltramo archiepiscopo burdegalensi...; dum enim putarentur cardinales esse discordes ad eligendum, in vigilia Pentecostes factus est repente de celo sonus tamquam advenientis spiritus vehementis et replevit totam domurn ubi erant cardinales congregati ut ab ipso spiritu excitati unirentur et in summum pontificem concorditer dirigerent vota sua» (cod. G4, f. 345rb-va).

Il papa eletto è consacrato a Lione (14.XI.1305), soggiorna poi a Cluny, Nevers, Bourges, Bordeaux (un anno), per fissare definitivamente la propria residenza in Avignone da marzo 1309. Clemente V non venne mai in Italia («Dictionnaire d’histoire et de géographie ecclésiastique» 12 (1953) 1115-1129). Ma dalla sua elezione a papa fino alla confermata decisione di restarsene in Francia, Perugia rimaneva in linea di diritto la sede della curia, in attesa - poi disillusa – d'ospitare il papa francese. Prima che Clemente V optasse definitivamente per la residenza avignonese, lo studium curiae degli ordini mendicanti rimase a Perugia. Il capitolo Bologna 1306 degli Eremitani di Sant'Agostino, nell'incertezza della futura residenza del papa, stabilisce «quod in loco nostro de Perusio sit studium generale curie donec de ipso per patrem nostrum generalem vel sequens generale capitulum secus fuerit ordinatum» («Analecta Augustiniana» III, 54). Il testo capitolare di Rieti 1305 può dunque essere così interpretato e commentato: Remigio insegna nel conventus curiae di Perugia e i capitolari intendono confermare il maestro in teologia in tale incarico di prestigio. Ma papa Clemente dove fisserà la propria dimora definitiva? Nel corso del 1306 gli agostiniani continuano ancora a designare il loro studio perugino come «studium generale curie». La situazione anomala generava incertezza. I capitolari domenicani di Rieti 1305 assegnano sì Remigio allo studio di Firenze, ma si riservano d'impiegarlo lettore nello studium curiae (Perugia, in linea di diritto) non appena il nuovo papa si fosse trasferito in suolo italiano; in tal caso fra Giordano sostituirà il maestro in teologia Remigio nel lettorato fiorentino. Nel 1307 le speranze che Clemente V si trasferisse in Italia dovevano esser tramontate. Nel luglio di quello stesso anno Remigio è rientrato a Firenze (Studio 225).

Il Quolibet II è stato dichiaratamente disputato «apud Perusium in curia» (n° 17a-b), cioè nello studio del convento domenicano della città in cui risiedeva la curia romana. I suoi estremi massimi sono Perugia marzo-aprile 1304 - 1307.

Il primo quodlibeto e le determinazioni (nn. 21, 22, 23) De uno esse in Christo e Venditio ad terminum dovrebbero supporre anch'essi - con la cautela suaccennata - il titolo magistrale. In particolare Quolibet I e De uno esse in Christo (un esemplare era in di San Domenico di Perugia: T. KAEPPELI, Inventari dei libri di San Domenico di Perugia, Roma 1962, p. 87 A 504) hanno la classica stesura redazionale della questione disputata, sebbene si dica per il secondo «libet... disserere per modum questionis» (n° 20); mentre la Venditio ad terminum, detta «brevis determinatio» nell'explicit (n° 23), è di appena 92 righe di stampa (CAPITANI, La “venditio ad terminum”…,  «Bull. Ist. Stor. Ital. per il M.E.» 70 (1958) 343-45), non ha né la sezione delle obiezioni né quella delle risposte, ma propone concisamente soltanto la soluzione subito introdotta con un «Et dicendum quod...» (n° 22). Remigio ha ampiamente usato il genere redazionale della quaestio nella silloge della Extractio questionum per alphabetum di cod. G3. E ho avuto modo di mostrare che, per la questione della durata legale delle ammonizioni dei capitoli dell'ordine dei Predicatori, quanto era stato originariamente composto in pura forma di esposizione e commento testuale della decisione capitolare Firenze 1281 e trascritto in cod. G4, non era mai stato oggetto di questione veramente disputata; la expositio subì un formale riadattamento iniziale a questione e fu inserita nella silloge della Extractio questionum di cod. G3 (Dibattito sulla durata legale..., AFP 50 (1980) 93-94, 97-98). In altre parole l'Extractio questionum non raccoglie di per sé questioni realmente disputate in atti scolastici (sebbene non si neghi che qualcuna possa esserlo stata). Perché allora Remigio non vi ha fatto trascrivere anche la Venditio ad terminum? La qualifica di determinatio sta a favore di un atto scolastico la cui fase conclusiva, la determinatio, è di stretta competenza del magister (P. GLORIEUX, La littérature quodlibétique, I, Paris 1925, 39-51; II, Paris 1935, 34-35, 45-50). D'altra parte la forma redazionalmente ridotta che presenta la Venditio ad terminum è spiegabile con quanto illustrato dal Glorieux circa la distinzione tra pubblica disputa e forma redazionale ultima che il maestro imprime al materiale della disputa (La littérature quodlibétique I, 44-45, 51-55; II, 41 ss).

Lo Speculum (nn. 24-25) contiene evidenti riferimenti alle lotte tra Bianchi e Neri di Firenze. Il conflitto anzi è in corso. La progressione temporale è sufficientemente persuasiva: ci sono stati conflitti a suo tempo tra Ghibellini e Guelfi, tra popolo e magnati, ma non giunsero all'asprezza quale «nunc videtur existere inter Albos et Nigros» (n° 25). Tutto il trattato è ispirato dall'ansia di pacificazione cittadina cui dà parole e immagini l'allegoria etica del bianco e nero preannunciata nel thema. Ambedue i colori son detti in bene e in male. Molteplici e bizzarri allegorismi fisiognomici illustrano il proposito. Non dunque l'eliminazione d'un colore a danno dell'altro, ma la ricomposizione dell'uno con l'altro rende ragione della policromia della creazione. Dal magma dell'allegorismo capriccioso, un incipiente conato poetico evoca il simbolo pubblico: l'abito dei frati Predicatori è pezzato, bianco e nero, e riconcilia in sé la policromia politica di segno opposto. La funzione simbolica dissimula la mediazione politica?

Animalia Laban [Gen. cc. 30-31], qui persecutus est hominem iustum scilicet Iacob, erant unius coloris tantum, scilicet vel alba tantum vel nigra tantum. Sed animalia Iacob erant varia, et simul alba et nigra. Et [habes exemplum] etiam in habitu fratrum Predicatorum quorum ordo excellentissimus est, sicut apparet ex multis. Et ideo dicitur Prov. 31[,21] «Omnes domestici eius vestiti sunt duplicibus» (f. 154ra).

Lo Speculum suppone l'anno 1302 e non dev'essere di molto posteriore.

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