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Il sermone in ricevimento di Carlo di Valois va certamente collocato in Firenze: «invitissime huc venit sed ex obedientia summi pontificis». Sulla strada di Napoli per allestire con gli Angioini la spedizione in Sicilia e strappare l’isola agli Aragonesi, Carlo fa sosta ad Anagni presso la curia papale in settembre 1301. Bonifacio VIII lo proclama il 3 settembre capitano generale dei territori pontifici, paciere della Toscana, rettore della Romagna, marchese d’Ancona e duca di Spoleto. E come paciere papale Carlo entra in Firenze il 1° novembre 1301, dove rimane fino al 12 febbraio 1302, e pone il quartier generale in Oltrarno. La domenica 5 novembre le autorità fiorentine, in solenne assemblea in Santa Maria Novella, concedono pieni poteri a Carlo:

«E lui riposato e soggiornato in Firenze alquanti dì, sì richiese il Comune di volere la signoria e guardia de la cittade, e balìa di potere pacificare i Guelfi insieme. E ciò fu asentito per lo Comune, e a dì v di novembre nella chiesa di SMN, essendosi raunati podestà, e capitano, e’ priori, e tutti i consiglieri, e il vescovo, e tutta la buona gente di Firenze, e della sua domanda fatta proposta e deliberata, e rimessa in lui la signoria e la guardia della città» (Villani IX, 49, 35-43).

A partire dallo stesso giorno domenica 5 novembre, come sappiamo, la città cade preda della violenza scatenata dal rientro di Corso dei Donati. Contenuto e tono del sermone suppongono che la situazione cittadina non sia ancora precipitata. Se non volessimo porre il sermone proprio in occasione dell’assemblea del 5 novembre in SMN (e questa appare l’occasione più congrua), certamente il sermone fu predicato tra il 1° e il 5 dello stesso mese.

Il cerimoniale della pubblica accoglienza fu caloroso e pittoresco; le mosse politiche dei priori in carica circospette e irrisolute. Quali le vere intenzioni di Carlo? quali soprattutto quelle di papa Bonifacio e del re di Francia Filippo il Bello fratello di Carlo? Il sermone di Remigio riflette il clima di cautela, forse anche di sospetto dei guelfi bianchi ancora al potere. Se Carlo è qui in Firenze - si dice - lo è più per obbedienza al papa che per sua iniziativa. Il genere retorico d’un sermone di ricevimento ha i suoi luoghi comuni, specie in caso di personaggi pubblici in pubbliche funzioni.

Nel sermonario de sanctis: «Hoc est contra quosdam christianos immo et clericos, immo et religiosos, immo et prelatos, qui de truffis et buffis verba protrahunt in laudibus regum principum et aliorum hominum terrenorum, verba poliunt ornant augmentant, et in laudibus Dei verba decurtant lacerant et deturpant. “He pro Deo! dicatis nobis unam brevem missam”; et tamen nolunt brevem sed longam mensam. “He pro Deo! dimictamus Miserere, dicamus Laudate Dominum” etc. Quomodo autem dicant officium Deus scit, mirum est qua conscientia tales, ita parum reverentes Deum, possunt vivere de patrimonio Crucifixi; unde contra istos Extra, De divinis officiis ... : “Dolentes - inquit - referimus...” [Extra III, 41,9]. Bene dicit “continua sincopa” quia sincopa “de medio tollis”, ipsi autem non dicunt nisi principium et finem, et illud male» (cod. D, ff. 282vb-283ra).

Più dicerìa del protorètore fiorentino Remigio, il «De domino Carolo Accingere gladio tuo», che sermone liturgico. Più ricevimento in nome della repubblica fiorentina che dell'ospitalità conventuale. Neppure troppo adulatorio, il tenore. Tra le parole commendatizie scivolano annotazioni le cui allusioni non potevano sfuggire agli uditori: Carlo è sì potente, ma più potente è in forza del riallaccio dinastico al regno di Francia, potentissimo in forza del mandato papale. Va a procacciarsi un regno in Sicilia? Si ricordi («ut scilicet intentio referatur») che il buon re deve attendere al bene e all’utilità del popolo non al proprio, altrimenti non sarebbe re ma tiranno. E non sia precipitoso, ma ponderi bene tempi e progetti. Se molte autorità bibliche sono piegate a sensi accomodatizi, Aristotele Seneca Cicerone Svetonio annunciano messaggi diretti e inequivoci. Ma - come talvolta accade nei documenti letterari - la reticenza impone la semantica al testo. Il papa aveva ufficialmente inviato Carlo a riconciliare bianchi e neri di Toscana, cosa ben risaputa in Firenze, che aveva scambiato ambascerie con Carlo prima che costui arrivasse in città. «Et quando vocavimus eum, fuit intentio nostra pro facto Sicilie ipsum vocare. Propter hoc principaliter vocavimus eum et adhuc sumus in eo proposito. Set quia hyems est et modicum fructum posset modo afferre, volumus, quia scriptum est "Primum querite regnum Dei", primo filios nostros Tuscie ad pacem reducere et ad bonum statum...; ut ponat pacem inter filios nostros, qui dicunt se Nigros et Albos». Il papa tiene anche a dissipare i sospetti dei fiorentini: «licet dicant falsi Florentini quod ego volo occupare iura Tuscie et corum. Certe mentiuntur, quia de iuribus Tuscie non me intromitto... » (in Davidsohn IV, 221). Ora Remigio non spende una parola, neppure una, sul compito di pacificazione del paciaro pontificio. Insiste invece nell’augurargli di trovarsi un regno in Sicilia. Cosa peraltro che non accadde perché l’incauta spedizione militare tentata nella torrida estate del sud (Remigio non aveva dissuaso dalla precipitazione?) risultò un insuccesso, e la lega franco-angioina fu costretta a fine agosto 1302 alla pace di Caltabellotta che sanciva la sovranità di Federico d’Aragona sulla Sicilia. Giovanni Villani riporta quanto correva sulle malelingue fiorentine:

«E così per contradio si disse per motto: messer Carlo venne in Toscana per paciaro, e lasciòe il paese in guerra; e andòe in Cicilia per fare guerra, e reconne vergognosa pace» (Villani IX, 50, 35-38).

I guelfi bianchi Dino Campagni e Dante Alighieri, ambedue incappati nelle condanne, saranno molto duri nel giudicare Carlo di Valois, che dopo il 5.XI.1301, lasciati rientrare i capi neri, assistette impassibile alle rappresaglie. Compagni II, 17; II, 21. Dante: De vulgari eloquentia II vi 5; Purg. XX, 70-78. Sulle estorsioni pecuniarie di Carlo ai fiorentini bianchi cf. Davidsohn IV, 264-66.

ASF, Notar. antecos. 3140, ff. 88r-89r (19.XII.1302), «Actum in terra Berceti parmensis diocesis», Carlo di Valois (sulla strada di rientro in Francia), «patiarius de sede apostolica deputatus», volendo «amicabiliter procedere et componere» attesta d’aver ricevuto 20.000 fiorini d’oro a nome del comune di Firenze dalla confisca dei beni di Baschiera del fu mr Bindo della Tosa, Baldinaccio di mr Bindo degli Adimari, Naldo del fu mr Lotto dei Gherardini, mr Vieri del fu Torrigiano dei Cerchi e mr Giano suo figlio, mr Torrigiano del fu Cerchio, Carbone del fu Dore, Giovanni di Cerchio, Ricoverino e Vieri suo fratello, tutti dei Cerchi. (Erano stati condannati il 5.IV.1302: ASF, Capitani di parte guelfa, numeri rossi 20, Libro del chiodo pp. 16-17). La lettera che autorizzava l’esazione (11.XII.1302, riportata nel medesimo documento) era stata data alla presenza di «d. Rubei de la Tosa, d. Pacçini de Pacçis, d. Iacobi de Rubeis militum, d. Fredi de Casolis iudicis appellationum et sindici comunis Florentie, d. Andree de Cerreto, d. Iacobi de Certaldo iudicis, ser Bonsegnori Guecci notarii reformatoris, Lapi Littifredi de Pacçis et Bindi de Bondelmontibus».

J. Favier, L’enigma di Filippo il Bello, Roma 1982, 337-45, 604a "Carlo di Valois".

Ecco il testo integrale del sermone.

<Firenze, 1-5 novembre 1301>

originale latino

volgarizzamento (2008) di EP

(De allocutione vel receptione) De domino Carolo: Accingere gladio tuo super femur tuum, potentissime; specie tua et pulcritudine tua intende prospere procede et regna. Ps. [44, 4-5].

In ricevimento di messer Carlo conte di Valois: Cingi la tua spada al tuo fianco, o potentissimo; nello splendore della tua bellezza mira alla prosperità, procedi e regna. Salmo 45, 4-5.

Quicumque vult ad debitum terminum pervenire oportet quod congruum ordinem servet in suo itinere. Motus enim recipit speciem et nomen a termino, secundum Philosophum; et bona via ad bonum terminum ducit, mala autem ad malum, secundum scripturas. Terminus autem intentus ad presens in persona preclarissimi viri domini Caroli qui hic est, fratris uterini[1] illustrissimi regis Francorum, est ut regnum adipiscatur, regnum possideat, in regno dominetur, et sicut rex regnet. Qui quidem exprimitur in verbo proposito cum ultimo dicitur et regna, necnon et premictitur congruus ordo per quem ad hunc terminum pervenitur. Et hoc quantum ad quatuor potentias anime nostre.

Chiunque voglia raggiungere la propria mèta, deve porre congruo ordine al proprio percorso. Il moto infatti, secondo Aristotele, definisce se stesso a partire dal suo termine. Una buona condotta conduce a buon termine, una cattiva ad un cattivo termine, secondo le sacre scritture. Il termine presentemente inteso nella persona dell'illustrissimo messer Carlo qui presente, fratello uterino del re di Francia (Filippo IV il Bello), è quello di conseguire un regno, di possedere un regno, di governare un regno, e pertanto di regnare come re. Pensiero espresso dal versetto tematico laddove chiude dicendo e regna, e laddove premette il congruo ordine che conduce al traguardo. E ciò in rapporto alle quattro facoltà dell'anima nostra.

|353rb| Et primo quidem quantum ad irascibilem, ut scilicet in persona eius sit strenuitas vigorosa. Unde dicit Accingere gladio tuo super femur tuum non solum gladio alieno super femur alterius; Glosa «Accingimur pugnaturi, precingimur ituri, succingimur ministraturi». Tu, domine Karole potentissime, qui quidem potens es ex persona propria sed potentior ex prosapia regia sed potentissimus ex gratia apostolica.

|353rb| Primo, quanto alla facoltà irascibile, perché la persona sia dotata di vigorosa tenacia. Dice pertanto Cingi la tua spada al tuo fianco, ossia non spada altrui al fianco altrui; Glossa biblica: «Ci accingiamo alla battaglia, ci precingiamo al cammino, ci succingiamo al servizio». Tu, o messer Carlo potentissimo! Potente di persona, più potente per stirpe regale, potentissimo per benevolenza papale (di Bonifacio VIII).

Secundo tangitur congruus ordo quantum ad concupiscibilem, ut scilicet in eo sit speciositas virtuosa quia specie tua et pulcritudine tua. Regem enim decet esse speciosum corpore quia, sicut dicitur Ysa. 31[= 33,17], «Regem in decore suo videbunt»; et Porfirius: «Species quidem primum digna est imperio»[2]; Eccli. 40[,22] «Speciem desiderabit oculus». Et decet esse pulcrum idest virtuosum mente, scilicet castum et sobrium. Prov. 31[,4] «Noli regibus dare vinum».

Secondo, quanto alla facoltà concupiscibile, perché vi sia in essa virtuosa bellezza, nello splendore della tua bellezza. Il re dev'esser bello, come si dice in Isaia 33,17: «I tuoi occhi vedranno un re nel suo splendore»; e Porfirío (ca. 233-305 d.C.), Isagoge 4,1 «In primo luogo una forma degna del comando»; Ecclesiastico (Siràcide) 40,22 «L'occhio desidera grazia e bellezza». E ben si addice esser bello, come dire esser mentalmente virtuoso, ossia casto e sobrio. Proverbi 31,4 «Ai re non far bere vino!».

Unde avus istius sanctus Ludovicus[3] dicitur respondisse medico persuadenti quod non poneret aquam in vino utpote iam infrigidatus ex etate, «Malo - inquit - esse rex infirmus quam rex ebrius». Sap. 4[,1] «Quam pulcra est casta generatio» etc. Virtus enim est pulcritudo anime, secundum philosophos et sanctos. Cant. 1[,15] «Pulcher es, dilecte mi». Si enim non est virtuosus, non est dicendus rex sed tirannus, secundum Philosophum. Ps. [20,2] «Domine, in virtute tua letabitur rex». Iste autem dominus Karolus et speciosus et virtuosus etc.

Cosicché di san Luigi, nonno di costui, si racconta che il medico gli consigliasse di non mettere acqua nel vino, infreddolito già com'era dalla vecchiaia; al che lui: «Preferisco essere re malato anziché re ubriaco». Sapienza 4,1 «Bella la generazione virtuosa» eccetera. La virtù è bellezza d'animo, a giudizio di filosofi e santi. Cantico dei Cantici 1,16 «Come sei bello, mio diletto!». Se poi virtuoso non lo è, non lo si dice re ma tiranno, secondo Aristotele. Salmo 21,2 «Signore, il re gioisce della tua virtù!». Questo messer Carlo è bello, virtuoso, eccetera.

Tertio quantum ad voluntatem, ut scilicet in ea sit intentio fructuosa. Unde dicit intende prospere ut scilicet intentio referatur ad prosperum statum populi et fructum et utilitatem subditorum suorum, alias non esset rex sed tirannus qui solum proprium commodum attendit, secundum Philosophum. De isto autem credo certissime quod, quantum est pro persona |353va| sua, invitissime huc venit sed ex obedientia summi pontificis, attendendo potius utilitatem aliorum quam suam.

Terzo, quanto alla volontà, perché in essa risiede fruttuoso proposito. Dice dunque mira alla prosperità, dove l'intenzione mira allo stato prospero del popolo e al servizio dei propri sudditi; altrimenti non sarebbe re ma tiranno, intento solo agli interessi personali, a giudizio di Aristotele. Sono certo che messer Carlo, per quanto spetta a lui |353va|, è qui venuto suo malgrado, ma in obbedienza al sommo pontefice, e impegnato più al vantaggio altrui che al proprio.

Quarto quantum ad rationem, ut scilicet in ea sit deliberatio ponderosa. Unde dicit procede ut scilicet non subito et repentine operetur sed cum quadam maturitate processivi motus et processionis. Unde Seneca al Lucillum «Turpe(?) est non ire sed ferri, et subito in medio turbine rerum stupentem querere “huc ego quomodo veni?”»; et Prov. 13[,10] «Qui agunt omnia cum consilio reguntur sapientia»; et Eccli. 21[,28] «Verba sapientum statera ponderabuntur»; et Tullius in libro De senectute «Non viribus aut velocitate corporis res magne geruntur sed consilio auctoritate et sententia»; et Svetonius libro II De duodecim Cesaribus: Augustus Cesar «in perfecto duce nichil minus quam festinationem temeritatemque convenire arbitrabatur; crebro id iactans dicebat satis celeriter fieri quicquid bene fit».

Quarto, quanto alla facoltà della ragione, perché in essa risiede ponderata decisione. Dice infatti procedi, ossia non repentinamente ma con la saggezza di moto progressivo. Seneca pertanto, Lettere a Lucilio IV,37 § 5: «Non è vergognoso andare ma lasciarsi trascinare, e in mezzo al turbine degli eventi chiedersi stupiti "come mai son giunto qui?». Proverbi 13,10 «La sapienza si trova presso coloro che prendono consiglio»; Ecclesiastico (Siràcide) 21,25 «Le parole dei prudenti saranno pesate sulla bilancia»; Marco Tullio Cicerone († 43 a.C.), Della vecchiezza c. 6: «Non con la forza né con l'agilità del corpo si fanno le grandi cose, ma col senno, autorevolezza e pensiero»; Caio Svetonio Tranquillo († 130 d.C.), Vita dei dodici Cesari II, 25: Cesare Augusto «stimava che nulla fosse più sconveniente della fretta e della temerarietà, e spesso esclamava: È fatto presto tutto ciò che è ben fatto!».

Rogemus et nos Dominum ut sic perfecte concedat eum esse vigorosum in strenuitate, speciosum in virtuositate, fructuosum in intentione et ponderosum in deliberatione, ut ad regnum optinendum perveniat debite; primo quidem ad regnum temporale et tandem ad regnum eternale. Ad quod etc. (cod. G4, f. 353ra-va).

E noi preghiamo il Signore che gli conceda di esser virtuoso nella forza, bello nella virtù, fruttuoso nei propositi, ponderato nella decisione; cosicché possa debitamente pervenire a conseguire il regno, ora il regno temporale e alla fine il regno eterno. Al quale eccetera (cod. G4, f. 353ra-va).


[1] "fratello uterino" sarebbe, almeno per noi, figlio della stessa madre ma di padre diverso; di fatto Carlo conte di Valois era unico "fratello germano" di re Filippo IV il Bello, entrambi figli di re Filippo III l'Ardito († 1285) e della sua prima moglie Isabella di Aragona: J. Favier, L’enigma di Filippo il Bello, Roma 1982, 28.

[2] PORFIRIO, Isagoge 4,1; traduz. Boezio (Arist. Lat.  I/6-7, p. 8); cf. ed. a c. di G. Girgenti, Milano 1995, 142.

[3] Luigi IX re di Francia († 1270), padre di Filippo III, e dunque nonno di Filippo IV e di Carlo di Valois. Luigi IX qui detto "sanctus ": canonizzazione 9.VIII.1297, suo ufficio (25 ag.) introdotto nella liturgia domenicana nel 1298-1301 (MOPH III, 289/4-6, 296/32-34, 302/14-15; IV, 21-23: lezioni dell'ufficio, anno 1306).


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