Quale che sia la risposta all’alternativa or ora prospettata (pluralità di persone secondo ruolo di lavoro o identità di persona dai più ruoli), un punto ne esce assodato: volgarizzamento, trascrizione e revisione sono così intrecciati sulle carte del codice che il vestito linguistico del testo è della medesima area del volgarizzamento. Il che mette il nostro volgarizzamento al riparo dal più insidioso avatar della tradizione della letteratura volgare: un testo umbro trascritto a Venezia si riveste di veneziano, nella grafia e nella morfologia; un testo senese trascritto in Firenze diviene fiorentìno, o viceversa (cf. F. Brambilla Ageno, L’edizione critica dei testi volgari, Padova 1984; R. Bessi - M. Martelli, Guida alla filologia italiana, Firenze 1984; Segre nelle introduzioni ai testi editi in Volgarizz.). Il copista/editore si propone fedeltà non all’originale ma ai suoi lettori, cui il testo è destinato. Ora il filologo romanzo ha già riconosciuto dai brani citati e da edizione di Ep. I che si è di fronte a un volgarizzamento dagli evidenti tratti del toscano occidentale (Prato Pistoia Lucca Pisa), da restringere all’area linguistica lucchese-pisana, e in definitiva a quest'ultima.
Elenchiamone i più notevoli.
Seguo ordine di
Castellani, Nuovi testi
41ss; v. anche Schiaffini IX-L.
Edizioni: Castellani, La prosa
61-63 pisano, 163-68 pisano, 259-61 pistoiese, 383-99 pisano, 499-543 pratese;
Volgarizz. 59-84 lucchese-pisano, 157-71 pistoiese, 239-81 trasmissione
in scrittura senese d’autore pisano Domenico Cavalca.
Domenico Cavalca, Vite dei Santi Padri [1330 ca.], ed. critica a c. di Carlo Delcorno, Firenze (Ed. del Galluzzo) 2009; in vol. I, pp. 273-310, importante "Nota linguistica", che elenca le caratteristiche del toscano occidentale, a distinzione dal prevalente fiorentino; in II, 1619-58 "Glossario".
Gli esempi illustrativi sono sempre tratti dal nostro volgarizzamento; senza rimando per caratteristiche costanti e frequentissime, con rinvio al numero di paragrafo per Ep. I qui pubblicata, alle carte del codice fiorentino con numero di rigo per il volgarizzamento del Liber peregrinationis.
Caratteri non fiorentini comuni a tutta la Toscana:
unde; protesi di a rafforzativa a verbi: acognoscere (Ep. I nn. 8, 10, 11), asapere (n. 31) aumilialo (ib.), allapidato (4r8ult), annaralle (= annarrarle) (11r1); epitesi di ne a voci ossitone e a monosillabi: quine, più raro ine, ène (23v11, ma raro); anco per anche; 3a persona plurale del presente indicativo costruita sul singolare ossitono: denno (= devono) (20v6ult), tienno (22r13; 23v9; 24r7ult), puonno (23r3ult; ponno è ponunt: 17r11; 22r14; 24r12ult); imperativo della seconda e terza classe in -e invece che in -i: «e disseli: Saglie... e fugge» (23v 6ult), ma «vieni e vendi» (8v3ult).
Caratteri comuni al gruppo occidentale, anche parzialmente, e ad uno degli altri due (senese e aretino-cortonese):
lassare contro lasciare, frequente e costante; suffisso sostantivale -ieri al singolare: «un suo fedele cavalieri» (23r2), «alcun forestieri» (23v10); suffisso aggettivale -′ile: vituperevilmente (18v10) convive con dilettevole (15r11ult), ragionevil (Ep. I n. 7); articolo el sei volte contro tre di il, altrove in concrezione; u nelle forme del perfetto indicativo e imperfetto congiuntivo di essere: fusti (Ep. I n. 28), fussi (23v5ult) e fossi (13ra; Ep. I n. 23), fusse (26r 6; Ep. I n. 6) e fosse (Ep. I nn. 2, 9, 20).
Caratteri occidentali comuni al pratese, pistoiese, lucchese e pisano:
dittongo au in paraula (4r12; 15r16; Ep. I nn. 5, 7), tezauro (7v17; 7v ult) allato a tezoro (8r4), laude e lode; in reazione alla velarizzazione di l preconsonantica, tipo autro<altro, autare<altare, si ha altentiche (15v 8), altoritadi<auctoritates (13r3), lalde (22r8) contro laudi (22v2), laldato (22r8), «con alcuna laude, dicendo: Cristo sia laldato» (22v12-13); avale (Ep. I n. 11);
avale<aequale: G. Rohlfs, Grammatica storica della lingua italiana e dei suoi dialetti. Fonetica, Torino rist. 1970, 417; Castellani, La prosa 63: «li beni che ll’opra aguale ave» (pisano, anni 1230-31); Giordano da Pisa, Quaresimale forentino 169/112; Volgarizz. 308 n. 3. Prende il significato di «adesso, ora»: G. Malagoli, Vocabolario pisano, Firenze 1939.
possa per poscia: «e indel quale possa fu preso» (3v 6ult), «sì che possa non incresca loro» (22r9ult); sonorizzazione più estesa che nel fiorentino: exeguitore (Ep. I n. 14), segondo (I n. 25), seguentia (5v18 e 7ult), sigonda (7r12), poghi (13 2ult), ganmelli (20v11), siguramente (22v2ult), sagramento (11v17); tendenza alla sincope vocalica dinanzi a r molto più estesa che nel fiorentino: opra, comprare (frequente in tutte le flessioni), liepra, lievra e lepra (lepus -oris) (6r-v), anche nei futuri e condizionali: lamendroti (Ep. I n. 5), drai (13r13), potrà, diventrà (15r10), dividrete (25r8ult), concedrebbe (Ep. I n. 5), ucidrebbeno (19r3ult; 23v7); sincope tra s e nasale, rifiutata dal fiorentino: medesmo, batismo; fine, infine a in luogo di fino, infino a, frequenti e costanti.
Caratteri pistoiesi, lucchesi e pisani:
ditto e composti in luogo di detto, qui praticamente sistematico; dunqua frequente, talvolta dunque (solo pratese e pistoiese hanno donqua, adonqua), adunqua (19r3ult); 3a plurale del presente indicativo della seconda, terza e quarta classe in -eno, costruita sulla 3a singolare, tipo dice-diceno: temeno, diceno, scriveno, credeno, procedeno, rispondeno, dipingeno..., sistematico.
Caratteri lucchesi-pisani:
pió di gran lunga preferito a più; -ul atono in luogo di -ol: populo frequentissimo, singulare, seculari, parvulo (e parvolo), intitulano, ruotuli (21r5), izule (25v7), angiulo (16r8); s o ss per rappresentare il suono z sorda (disputassione), e z per rappresentare la sibilante sonora (quazi, paradizo), sono le caratteristiche grafiche più vistose del nostro volgarizzamento; «delle suoi mani» (9r10); il possessivo femminile plurale di 2a persona è tuoe (tue è pronome personale di 2a persona singolare con vocale epitetica); qualunqua (18v3ult; 22v ult); chiunqua<quicumque (22r10); praticamente sistematico indel<intus in luogo di nel; 3a plurale del presente indicativo dei verbi con tema in liquida costruita sulla singolare: vuolno (23r13; 23v 8; Ep. I n. 27); 3a singolare del perfetto indicativo dei verbi -ere -ire in -ette -itte: discernette (7v7ult), concedette (19v1), sucedette (8v11ult), potette, assaglitte, rapitte, inghiottitte, peritte, partoritte, saglitte, ma talvolta anche cognobbe, poté, consentì; 3a plurale del perfetto indicativo della prima classe in -onno: trovonno (Ep. I n. 17), spoglionno (n. 18), affogonno (n. 23), dimoronno (2v10ult), amonno (19r2ult), occuponno e occuparo (7r6ult e 3ult), canponno e canparo (Ep. I nn. 25, 29); in -eno costruita sulla singolare è regolare: feceno, uscitteno, venneno, saglitteno, ebeno, preseno, trasseno, potenno, sosteneno, rimaseno, elesseno, disseno, combattereno...; dienno (Ep. I n. 18), funno (nn. 2, 23); 3a plurale dell’imperfetto congiuntivo e del condizionale in -eno costruita sulla singolare è altrettanto regolare: trovasseno, riportasseno, lassasseno, gloriasseno, perseverasseno, avesseno, rimanesseno, ucidesseno, convertisseno..., mangerebbeno, berebbeno, vincerebbeno, convincerebbeno, cacerebbeno, offenderebbeno, uciderebbeno, sarebbeno... ; non vi si riscontra la 3a singolare del condizionale in -è (Castellani, Nuovi testi 50 n° 13); finno<fient: «delle quali pure una si salverae e l’altre finno dannate a fuoco» (25r18-19; 24r6ult).
Il singolare nel pisano di Chiara Gambacorta († 1419): «e quando fi’ guarita»; «Chiedete e fi’ vi dato, cercate e troverete, picchiate e fi’ vi aperto» (N. Zucchelli, La beata Chiara Gambacorta, Pisa 1914, 349, 353).
Inoltre persistenza del dittongo discendente (Castellani, Nuovi testi 109-10): frequente e costante aitare e sue forme, meizzo (10r9ult); sensa (8v3; 23r15) accanto a sansa, incontenente (6r6; 18v5) (Castellani, Nuovi testi 53-57); diece (24v 5ult) (Nuovi testi 133-34); dipo (12v8ult; 14r14; 18v2ult) con doppo (Nuovi testi 128-31); e pretonica (Nuovi testi 118-21) è mantenuta in pregione, pregionia, vettoria (non sempre), sencerità, genetrice, vertue; quella etimologica muta in i in rimoto, disiderio, meritrice, nigligente, divoto, sipolcro, nicesità; costante er atono nel futuro dei verbi della prima classe (Nuovi testi 22, 25-26), tipo tornerà; milia (miglia per misura di lunghezza), mai mila (Nuovi testi 136-39); ogni, mai ogna (Nuovi testi 125-27); 2a persona del presente indicativo e congiuntivo in -i in tutte le classi (Nuovi testi 68-70): molti esempi in Ep. I; u<aut (Schiaffini XXIIIn; Castellani, La prosa 399, 11 pisano; Volgarizz. 164 n. 1 pistoiese; G. Malagoli, Vocabolario pisano, Firenze 1939) ben attestato nel nostro volgarizzamento in concorrenza con o; du (= due; Castellani, La prosa 398, 5 pisano) (2r 2ult; 3v 6; 16v ult; 25r 10ult; Ep. I n. 15); diano<dent (21r14) e riei (10r 5; 10r2ult; Castellani, Nuovi testi 73-75); Lazaro (14r6ult) contro il fiorentino Lazero (Nuovi testi 22 G); comuno (19r15; 21v6ult; 22r11; 23v17).
comuno in testi pisani o in tradizione pisana: Poeti del Duecento, a c. di G. Contini, Torino 1976, I, 38 v. 71; 139 v. 7; II, 348; E. Cristiani, Nobiltà e popolo nel comune di Pisa, Napoli 1962, 249, 250 n. 63, 254 n. 81, 258 n. 92, 259 n. 95; G. Malagoli, Vocabolario pisano, Firenze 1939, lo segnala per il XIII e XIV secolo.
<volgarizzamento pisano>
In una più specifica ricognizione delle caratteristiche distintive tra pisano e lucchese Arrigo Castellani (Pisano e lucchese, in ID., Saggi di linguistica e filologia italiana e romanza, Roma 1980, I, 283-326) recensisce: forme dittongate pisane ie, uo, contro il lucchese e, o (areto, inseme, contene, convene, fore, poi = puoi, poe = può); il nostro volgarizzamento ha sempre le forme dittongate. Proprio del pisano è -ul postonico e intertonico contro -ol lucchese, salvo taluni latinismi. Del lucchese antico è or atono, invece di er o ar, in letora ( = lettere); lettera e lettere nel nostro volgarizzamento. Consonante sonora in fadiga, mercadante, regare è del lucchese contro la relativa sorda del pisano; nel nostro volgarizzamento fatica (20v7), mercatante (6v7), mercatantìe (20v11), recare (24v17). Contro il costante plurale in -i dei sostantivi e aggettivi femminili della seconda classe nel lucchese, si ha o prevale nel pisano la desinenza -e; così nel nostro volgarizzamento: «mirabile... le opre, molte tribulassione, tante tenpestade, altre parte, singulare dilisie, quale cose» ecc. (vedi Ep. I). Sempre ne nel pisano, e così nel nostro volgarizzamento, contro nde e de<inde (= ne) lucchese. Caratteristica esclusiva del pisano sembra pió (contro più). Le desinenze -ette -itte della 3a persona singolare del perfetto indicativo sono rare nel lucchese, che di regola ha -eo -io. Contro le desinenze -ono -eno -etteno -itteno della 3a plurale del perfetto indicativo, imperfetto congiuntivo e condizionale, il lucchese preferisce quella in -óro -eono -iono. Lucchese città, pisano cità, e la sola scrittura scempia compare frequentemente nel nostro volgarizzamento.
Domina ancora incontrastata la legge cosiddetta Tobler-Mussafia: nell’antico volgare i pronomi personali atoni e le particelle pronominali atone si pospongono (ènclisi) al verbo che comincia un periodo, o vien dopo la copulativa e o congiuntiva ma; spesso anche quando la proposizione principale cominciante col verbo sia preceduta da una secondaria; la forte tonalità di sì<sic dispensa dall’ènclisi (ampia trattazione in Schiaffini 275-97; Brambilla Ageno, L’edizione critica 64: «nel Duecento non è ammissibile una frase che violi la legge Tobler-Mussafia, cominciando con un pronome atono». Sondaggio da talune carte del volgarizzamento del Liber peregrinationis:
E prendendo de’ rami delli ulivi, benidicenmoli e demone a tutti (2r5-6). E dicesi che questo avvenne (2v3-4). Passando Cristo e vedendovi un lavoratore che seminava..., dimandolo (2v4-6). E vedenmovi anco (3r19). Indella quale valle considerando..., ponenmoci a sedere (3v4ult). E odendo poi..., fecensi mostrare (8r-v). E trovandola larghissima..., accettonola (8v24). E diman<dan>do poi elli..., sì lli rispuoseno (9r9-11). Ma poi li arcivescovi e’ vescovi loro riprendendo se medesmi..., richiersenoci (19r13-14). Ma advegna che lla ditta cità... fosse... disfatta, sonoci neente meno (19v13-15). Disiderando dunqua noi..., parveci necessario (19v2ult).
Ep. I: Unde se della porvere..., meravigliomi (n. 5). E insieme congaudendosi..., sìe si scriveno (9). Levati dunque... e salvaci (12; contro la regolare pròclisi nell’imperativo non iniziale «ci libera»: ib.). E andando me predicando..., trovonnomi (17). Vienmi anco alla memoria (20). Ricordomi io (21). E che maggiore strasio pare, ènmi rinproverato (27). Se tti piace..., faccelo asapere (31).
Vi si discosta, non a inizio del periodo, in Liber peregrinationis: E uscendo della cità, le presentoe (8r18); Ep. 1 n. 19: Ma ecco... pensando, mi si raduce. «Nella Vita nuova [di Dante] ..., la proposizione gerundiva o participiale, che preceda alla proposizione principale, basta da sé a impedire l’ènclisi... : E pensando di lei, mi sopragiunse» (Schiaffini 279).
Scomparso del tutto k per rappresentare suoni velari sordi, mentre si scrive ancora qq per il rafforzamento di q (aqqua, naqque). Schiaffini 264; B. Migliorini, Storia della lingua italiana, Firenze 1971, 213.
Liber peregrinationis: venditur enim una bona [scil. pellis] usque ad viginti libras. Et sic tartari... (LP 9vb) / perché vendeno l’una bene xx lire di nostra moneta toscana. E così... (6v)
Venimus itaque per fluvium recto cursu usque Baldaccum civitatem mirabilem, ubi occurrerunt nobis fratres nostri extra civitatem; quos cum vidimus, tantus fuit fletus et inundantia lacrimarum pre gaudio quod paucis verbis explicari non posset (14rb) / E passata la ditta cità veninmo, come comincianmo a ddire, pur su per llo fiume per diritto corso fine a Baldac, la quale è mirabile e bella cità, indella quale stavano de’ nostri frati Predicatori, li quali udendo la nostra venuta ci uscitteno incontra fuori della cità, ai quali giungendo abracciamoci insieme con tanto gaudio e con così dolci lagrime che non si potrebbe explicare in poche paraule (15r)
Nam cum tanta letitia recipiebant quod videbatur nobis frequenter quod vere invenissemus hospites ordinis et illos qui libentissime fratres recipiunt in domibus suis (18va) / E tanta letisia mostravano di noi che quando entravanmo a lloro, ci parea entrare in quelli divoti ospiti li quali indelle contrade nostre riceveno li nostri frati volentieri (22v)
Epistola I: Et ecce subito occurrit animo magnus ille et ferventissimus predicator et Predicatorum ordinis inventor, quem in fine temporis ab occidentali parte mundi doctrinis et miraculis suscitasti, beatus Dominicus (n° 19) / Ma ecco subitamente sopra cciò pensando, mi si raduce alla memoria quello grande e ferventissimo predicatore, ansi capo e fondatore dell’ordine nostro cioè de’ Predicatori, cioè santo Domenico, lo quale in questi utimi tenpi dalle parte dell’occidente, cioè di Spagna, con dottrine e miracoli sucitasti e chiamasti (19)
Magnus ille sanctus pater Predicatorum magister Iordanus, sanctus et famosus in mundo miraculis et doctrinis (21) / Ricordomi io anco e penso che ’l venerabile e santo frate Iordano, maestro dell’ordine de’ frati Predicatori e aprovato per miracoli e per dottrina (21)
Et nunc nullum est michi refrigerium aliud nisi tu Deus. Et relictus sum solus in Baldacco a sociis in profundis partibus orientis, et de occidente a pluribus annis aliqua nova non habeo de fratribus meis sive de ordine. Magistro eciam qui me misit nescio quid accidit (30) / E ora, Signor mio, nullo abbo refugio se non te solo, rimaso solo in Baldaccha indelle profonde parti dell’oriente, abandonato da ogni conpagno, e dell’ocidente già sono pió anni nulla novella abbo avuta de’ frati miei né de l’ordine mio. E al maestro del ditto mio ordine che mi mandoe qua, non so che sia incontrato (30)
Stampato in corsivo quanto, assente nell’originale latino, viene aggiunto o esplicitato dal volgarizzatore. L’intervento di nostra moneta toscana, benché interessante, non aggiunge alcunché a quanto già sappiamo del volgarizzatore, che la ricognizione linguistica restringe all’area pisana. Negli altri testi affiora insistente la tendenza, eccedente il bisogno di render chiaro ai profani un brano oscuro, a puntualizzare connotazioni che rinviano all’ordine dei Predicatori: fratres nostri sono nostri frati Predicatori; fratres sono nostri frati; Predicatorum ordinis inventor è fondatore dell’ordine nostro cioè de’ Predicatori, e si specifica che l’occidente nel caso è la Spagna. L’ellittico pater Predicatorum magister Iordanus non trae in inganno il volgarizzatore, che dà prova di familiarità con le istituzioni domenicane: pater genera venerabile, titolo reverenziale d’uso per il maestro dell’ordine, e magister non indica titolo accademico o professionale bensì maestro dell’ordine de’ frati Predicatori, formula che più esatta non si può. E perché continuare a insistere che de ordine è de l’ordine mio, che magistro è maestro del ditto mio ordine?
Mi pare che soltanto sotto la penna d’un frate domenicano sia possibile spiegare la veniale esibizione d’amor di famiglia, e nel contempo esattezza di terminologia. Il contenuto peraltro del primitivo codice fiorentino, attuali ff. 1-51, ben risponde alla produzione d’uno scrittoio conventuale: oltre ai volgarizzamenti di Riccoldo e della lettera del prete Ianni, orazioni e ritmi religiosi, istruzioni per la confessione generale. Né si oppongono le note esplicative della Roma antica, ché a Trecento inoltrato il modello della romanità classica, dall’esemplarità delle virtù politiche al magistero retorico, ha già fatto molta strada sia presso la cultura laica che presso circoli teologici sensibili a ispirare la vita comunale con l’esempio degli antichi. C’è da ricordare che il pisano Bartolomeo da San Concordio OP († 11.VII.1346), volgarizzando le monografie sallustiane, dovette glossare termini ignoti ai suoi lettori?
«... dugento millia sesterzi. (E desi qui intendere che in quel tempo si chiamava sesterzio alcuno certo numero di moneta, sì come oggi dodici si chiama soldo» (Volgarizz. 416); «E desi qui intendere che legione contenea comunemente da 6666 fra pedoni e cavalieri, e tale alquanto meno» (418).
Per le date fornite dalla cronaca conventuale di Pisa: E. PANELLA, La Cronaca di Santa Caterina di Pisa usa lo stile pisano?, MD 16 (1985) 325-34. E al convento domenicano di Pisa ci riporta, con l'altro nome Domenico Cavalca († dic. 1341), la più vasta attività di divulgazione tra i frati Predicatori di Toscana: cf. C. DELCORNO, Predicazione volgare e volgarizzamenti, «Mélanges de l'Ècole française de Rome, Moyen Age-Temps Modernes» 89 (1977) 679-89; ID., Domenico Cavalca, «Dizionario biografico degli italiani» 22 (1979) 577-86; C. SEGRE, Bartolomeo da San Concordio, ib. 6 (1964) 768-70. In redazione pisana il ciclo di prediche di fr. Giordano da Pisa OP in: Firenze, Laurenz. Calci 21: C. DELCORNO, Nuovi testimoni della letteratura domenicana del Trecento, «Lettere italiane» 36 (1984) 578-87. Da una corsiva ricognizione linguistica si ricava l'impressione che le caratteristiche del toscano occidentale siano in ordine crescente in Calci 21, nostro volgarizzamento delle opere riccoldiane e Colloquio spirituale (1381 ca.) di Simone da Cascina OP (ed. F. Dalla Riva, Firenze 1982), in quest'ultimo con forti intonazioni vernacolari.
Che poi il volgarizzatore degli scritti riccoldiani sia un uomo colto, verosimilmente ecclesiastico e di buona formazione teologica, lo fanno pensare molti attendibili indizi. E non contraddicono le frequenti contaminazoni grafiche tra le preposizioni pro- per- pre-, che si ritrovano frequentemente anche in scritture dotte e che talvolta fanno capolino anche in testi latini del tempo. Abbiamo già annotato l’impiego d’un termine in accezione tecnica quale convincere, assente nel modello latino, in connessione con una disputa dialettica. Altre caratteristiche del lavoro di traduzione ci permettono di abbozzare i tratti culturali del volgarizzatore.
Anzitutto l’intento divulgativo, condiviso del resto da simile produzione letteraria: brani difficili, o per contenuto o per tecnicità di linguaggio o per ardua costruzione, suggeriscono riadattamenti, esplicitazioni, glosse di natura informativa, che qua e là tradiscono preparazione specialistica. In Betlemme Riccoldo visita «palatium ubi Ieronimus transtulit libros et sedem ubi sedebat» (LP 4rb); «quello palagio nel quale santo Ierolimo traslatoe la bibbia di greco e ebraico in latino e fece molti altri libri, e vedenmovi anco la sedia nella quale sedeva a scrivere e traslatare li ditti libri» (3r). Il semplice Filippo che battezza l’eunuco della regina Candace (4va; cf. Act. 8,26-40) è «uno de’ vij diaconi» (3v11; cf. Act. 6,5; 21,8). Il canto «Victime pascali laudes etc.» (5va) è «quella bella seguentia della Resurressione» (5v18).
Ibi iuxta est viculus vel casale prophetarum, qui occurrerunt Elye et Elyseo et dixerunt: Hodie tolletur dominus tuus a te (4rb) / E quine presso a tre miglia è quello casale e luogo nel quale si legge ne· libro de’ Re che certi profeti si scontraro con Elia e co· Eliser e predissero a Heliser come Elia in quello dì li dovea esser tolto e rapito in paradiso, e così fu (3r)
C’è qualcosa di più che il buon senso di trarre in chiaro il troppo rapido passo di Riccoldo. Chi è il dominus? a chi verrà tolto? Il ricorso a IV Reg. 2,1-15 restituisce esattezza di ruoli tra gli attori.
■ Su luoghi che non
presentano particolari asperità d'interpretazione si riscontrano imprecisioni nella traduzione: «quem [Machometum] de latrocinio... transtulerunt prophetam / lo quale doppo molti micidii... ànno traslatalo i propheti» (Ep. I n. 12); «flumina... descendunt... et intrant mare indicum / e discendenmo... e entranmo indel mare d'India » (brano n. 6 riportato sopra § 3 Il volgarizzamento toscano trecentesco); i propheti da interpretare e in parte emendare i· [= in] propheta? Ma quale lezione portava il modello latino usato dal volgarizzatore? Ricordiamo che egli non traduce dal codice berlinese d'autore di LP ma da un esemplare posteriore già affetto da corruttela, come mostrato in Ricerche..., AFP 58 (1988) 73.Il volgarizzatore intende perfettamente, e perfettamente rende il pensiero di Riccoldo. Là dove costui s’intrattiene diffusamente a esporre con specialistico linguaggio teologico la dottrina trinitaria, cristologica e sacramentaria dei nestoriani e giacobiti (LP 14rb-16ra) chiamando in causa persona, ipostasi, supposito, filiazione naturale, filiazione adottiva eccetera e relativo lessico arabo-siriaco (cf. Presentazione, MD 17 (1986) XV n. 12), il volgarizzatore epitoma fortemente; è capace tuttavia di dare il succo con precisione e talvolta di riformulare in più volgato registro linguistico (ff. 16v-18v). La secca formula di diritto sacramentario «de forma» non soltanto non imbarazza il volgarizzatore ma gli dà occasione d’esplicitare quanto noto all’uomo di chiesa:
In aliis autem missis licet sit aliquid de forma, non tamen est intentio eorum quod tunc consecrent, sed postea circa finem misse ad quandam invocationem Spiritus sancti (15vb) / Indell’altre messe, advegna che sia alcuna cosa o paraula della forma della chiesa, non è però loro intensione di consacrare a lloro ad quelle paraule, ma presso alla fine della messa a certa invocassione dello Spirito santo (17v)
Requisiti autem super hoc, iacobini asseruerunt sic esse, scilicet Deum fuisse mortuum et sepultum. Tunc mandavit califfa quod omnes iacobini occiderentur... (15ra-b) / E richiesti sopra cciò li ditti iacobini confessonno arditamente la verità, la quale oggi tiene la santa matre eclesia, cioè che Dio naqque della Vergine e morì sulla croce, e cio ch’è, tutto fu l’anunsiare del Verbo divino all’umana natura: ch’esso Cristo fu vero Dio e naqque della Vergine, come si prova per quella parola che disse l’agnolo alla Vergine Maria «Quod enim ex te nascetur sanctum vocabitur Filius Dei» [Luc. 1,34], e per altre molte ragione; e generalmente ciò che si dice di quello homo unito al Verbo «quia (?) Verbum caro factum est et abitabit in nobis» [Io. 1,14] s’intende del Figliuolo di Dio. Unde pognamo che lli ditti iacobini errino in altre cose come di sopra dicenmo, pure in questo diceno vero. E udendo la ditta risposta e confessione lo chaliffo fu in furia e fece ucidere e mettere alle spade tutti li iacobini... (16r)
La divulgazione didascalica attinge al sapere teologico. La lezione rinchiusa nell’aneddoto raccontato da Riccoldo sollecita nel volgarizzatore una spiegazione retta da specialistica premessa: quanto compete all’umanità di Cristo in forza dell’unione personale col Verbo, può esser predicato anche di Dio.
Primo quia dicunt quod multi eorum habent spiritum prophetie, et de futuris multa vera predicunt; et hoc procul dubio de aliquibus per experientiam verum esse probavimus. Secundo quia... (16ra) / E l’una si è che diceno che molti di loro ànno spirito di profesia e molte cose futture prediceno; e questo per certo provanmo e trovanmo ch’era vero. Ma questo argomento e questa ragione è molto fallace però che Dio per suo iusto e oculto iudicio concede spirito di profesia esiandio ai reprobi e suoi nimici, come fu Balaam e altri molti, de’ quali dice Cristo indel vangelio che molti veranno indel dì del iudicio a llui dicendo «Noi profetanmo indel nome tuo e caccia<n>mo molte demonia» etc., e elli dice che dirà loro «Partitevi da me, operatori di iniquitade, ch’io non vi cognosco» [Mt. 7,22-23] etc. Per le quali parole dà a intendere, come dice santo Gherigorio: vita e non segni de cercare lo vero cristiano d’avere e di fare. Diceno anco che... (18r)
Una sottile preoccupazione di pastorale teologica vuol mettere in guardia il lettore da indebite estensioni: il carisma profetico accordato secondo l’occorrenza ad un singolo individuo non deve far credere che ne esca validata la profezia del sistema religioso in quanto tale. Dei tre anelli di pari splendore (ebraismo, cristianesimo e islâm) passati a pari titolo ai tre figli eredi, uno solo è «fine» cioè autentico. Ciascuno dei figli crede d’averlo avuto lui in sorte; ma il segreto è unicamente presso il genitore. Così la parabola diffusa dal Novellino LXXIII e ripresa dal Decameron I, 3 del Boccaccio. Né Riccoldo né il suo volgarizzatore intendono rinunciare a discernere l’«anello fine». Già antecedentemente il volgarizzatore aveva glossato la coesistenza di stoltezza e profezia nella persona di Balaam ricorrendo, contro il silenzio del modello latino, a Num. 22,5-35 e II Pet. 2,15:
qui [Deus] non solum per apostolos, homines galileos et sinplices piscatores, confudit et superavit sapientiam mundi, sed etiam per asine rudimenta corripuit prophete insipientiam (13va) / el quale non solamente per lli apostoli, homini galilei e sinplici pescatori, convinse e confuse tutta la sapientia della philosofia mondana, ma esiandio, come si trova ne’ libri de’ Numeri e come san Piero raconta, per bocca d’una asina riprese la stoltia del propheta Balaam (13v-14r).