⌂ Citazioni bibliche senza indicazione di libro, vengono completate con esattezza. Taluni casi fanno pensare a una frequentazione biblica eccedente la consueta conoscenza che poteva vantare chicchessia, anche laico.
Deinde... exivimus extra civitatem iuxta montem Syon et invenimus iuxta civitatem fontem Rogel, ubi fuit ortus regius, ubi Adonyas filius Agit fecit convivium cum vellet regnare (LP 3vb) / E uscendo poi della cità... trovammo presso al monte Syon la fonte Rogel, dove fu l’orto regale, indel quale, come si legge inde· libro de’ Regi, Anselone figliuolo di Davit fece lo convito volendo regnare per llo padre (2r)
Secondo III Reg. 1,5.9 è Adonia «filius Haggith» a consumare intrighi contro David e offrire il convito presso la fonte Rogel. Il testo di Riccoldo è corretto. Ma che cosa ha inteso fare il volgarizzatore? Elimina il nome Haggith, che avrebbe frastornato i suoi lettori: chi è costui, anzi costei?, perché Haggith è madre d’Adonia e una delle mogli di David (II Reg. 3,4). Dunque Adonia figlio di David. Tutti conoscono David. Nel rimaneggiare il testo, ad Adonia si sostituisce Assalonne. Ma anche Assalonne, figlio di David (II Reg. 3,3), tramò contro il padre; e ciò che più sorprende, un episodio della guerriglia d’Assalonne ebbe anch’esso luogo pressa la fonte Rogel (II Reg. 17,17), senza però il convito come nel caso di Adonia. Sia il rimaneggiamento che l’errore in esso scivolato possono combinarsi soltanto nella memoria di chi ha una non comune frequentazione dei libri biblici.
L’altro volgarizzamento toscano (Paris BN ital. 7714) mostra a evidenza la degradazione del nome Haggith sotto la penna degli scribi: «e trovamo al lato a la città la fonte Rogiel, laddove fu l'orto Reale, nel quale Adomas, figliuolo di Ghi, fecie il convito quando volle regniare» (F.L. Polidori, F. Grottanelli, L. Banchi, Viaggio in Terra santa di fra Riccoldo da Monte di Croce, Siena 1864, 14-15). Più fedele Firenze, Bibl. Laurenziana, Plut. 89, sup. 104, ed. V. Fineschi, Itinerario ai paesi orientali..., Firenze 1793, 50: «e trovamo allato alla Città la Fonte di Rogel là dove fu l'orto reale, nel quale Adonas figliuolo di Haggit fece il convito, quando volle regnare».
Ep. I n° 10: misisti angelum tuum qui una nocte occidit ex eis centum octuaginta quinque millia / e mandasti l’agnolo tuo, lo quale in una notte ucise cento ottanta cinque migliaia di quello suo populo, sì che tornoe arieto sconfitto.
IV Reg. 19, 35-36: «venit angelus Domini et percussit in castris Assyriorum centum octoginta quinque milia. ( ... ) et recedens abiit et reversus est Sennacherib rex Assyriorum et mansit in Ninive». Il brano biblico, certo non di quelli che la liturgia trasferisce sulla bocca di tutti, continua a citarsi nella memoria del volgarizzatore oltre il modello riccoldiano.
Ep. I n° 30: Et «veni in altitudinem maris et tempestas concussit me. Non me demergat tempestas aque». Scio enim, Domine, «quoniam benigna est misericordia tua», licet modo non ita clare videam / Non mi lassare dunque affondare da tante tenpestade e tribulassioni che mi circundano, ché ben so che «benigna è la misericordia tua», advegna che ora non chiaramente la vegga né provi
Ps. 68, 3.16 «Veni in altitudinem maris et tempestas demersit me. Non me demergat tempestas aque» si prolunga nella memoria del volgarizzatore, per assonanza testuale, con Eccli. 51,5 «tribulationum quae circumdederunt me».
Ep. I n° 14: Hee omnia dedisti eis tu, qui perpetua mundum racione gubernas / Or ecco tutti e cotai beni ài dato ai saracini, tue, lo quale - come dice Boesio - governi e reggi lo mondo con sonma e etterna ragione
A colpo sicuro il volgarizzatore riconosce la citazione dalla Philosophiae consolatio III met. 9 di Boezio: «O qui perpetua mundum ratione gubernas... ». Nel Convivio II, XII, 2 Dante dice d’essersi messo «a leggere quello non conosciuto da molti libro di Boezio», la Philosophiae consolatio. Ma è difficile sostenere la notizia se la s’intende che l’opera boeziana non fosse conosciuta e letta o perché libro raro o perché non rispondente agl’interessi degli uomini del tempo. Numerosi erano stati i commentari alla Consolatio dall’alto medioevo in poi; la commenterà di nuovo con molta fortuna editoriale Niccolò Trevet OP tra 1298 e 1304, a petizione del fiorentino Paolo dei Pilastri OP. Si commenta un’opera di grande interesse. La Consolatio viene ovviamente utilizzata, e non per citazioni decorative, dagli scritti di matrice scolastica, specie in relazione al problema del male, della libertà, della provvidenza divina. Ma la si cita anche nella pubblica predicazione, non esclusa quella volgare, come nel quaresimale fiorentino, 1306, di Giordano da Pisa. Numerose le traduzioni in tutte le lingue volgari, già anteriormente al Convivio di Dante. Quella francese di Jean de Meun (seconda metà del XIII s.) fu seguita a brevi intervalli da altre sette. Quella toscana d’Alberto della Piagentina (1332) era stata preceduta da una pisana anonima e, pare, da una veneziana. Il libro de’ vizi e delle virtudi del fiorentino Bono Giamboni (seconda metà del XIII s.) riprende l’impianto della Consolatio, e nei primi capitoli la segue alla lettera. Bisognerà verosimilmente puntare l’attenzione su «molti» del citato brano dantesco e circoscrivere l’allusione a taluni circoli d’uomini di lettere; oppure - e meglio - chiosare «non conosciuto» e intendere «libro arduo e di difficile lettura», donde veniva un qualche scoraggiamento all’assidua frequentazione, specie per quanti non disponessero di solida preparazione linguistica e filosofica. Non molto diversamente da quanto confessava nel 1315 il cardinal Niccolò da Prato OP al commentatore Trevet:
«Perpendimus enim vos in eiusdem libelli expeditione, quem et nos a iuvenilibus annis habuimus familiarem qui sicut universos sua difformi set suavi modulatione semper letificat sic quam plures [i «molti» di Dante!] non suo stridore, quo penitus caret, set hebetioris intelligentie prepediente tarditate contristat, tam succincte tamque lucide processisse ut et brevitas gratam faciat ipsius lectionem peritis et claritas blandiatur indoctis acutosque venustas texture demulceat» (in F. Ehrle, Gesammelte Aufsätze zur englischen Scholastik, Roma 1970, 320 n. 2). Cf. Priori…, MD 17 (1986) 259-63; Volgarizz. 285-86.
Comunque sia, al nostro volgarizzatore son sufficienti quattro parole per riconoscervi una citazione della Philosophiae consolatio.
In riferimento a Nicola de Hanapis OP (SOPMÆ III, 168-71; IV, 208) il volgarizzatore glossa due volte il titolo patriarcale con «d’Alessandria» (Ep. I n° 26 e 27), quando l’originale latino tace il nome della sede. Nicola fu patriarca di Gerusalemme non d’Alessandria. Errore, certo, ma errore dotto, perché suppone la conoscenza delle sedi patriarcali d’oriente. E in connessione con questo incidente, vien da porre la domanda: il volgarizzatore ha tradotto soltanto la prima o tutte e cinque le lettere di Riccoldo? Come annotato nella presentazione del codice, Ep. I termina a f. 33v, cui fa subito seguito la rubrica della seconda lettera; otto righi di scrittura in tutto. Il resto della pagina, più di metà e pari a circa diciotto righi dello specchio scrittorio, è lasciato in bianco. Segue con regolare inizio a f. 34r «Questa è la pistola del preste Ianni d’India». La lettera quarta è indirizzata al patriarca Nicola, che qui viene espressamente detto patriarca di Gerusalemme (Ep. IV, f. 263r, f. 263v; ed. 289, 290). Non avrebbe il volgarizzatore - che sappiamo ritornare a migliorare il proprio lavoro - emendato l’errore commesso in Ep. I se avesse tradotto tutte le lettere?
Resta che il volgarizzatore ha osato immettere tra le letture dei laici l’Epistola I di Riccoldo, testo dall’alta tensione spirituale, dal contenuto non convenzionale, stridente con l’abbondante letteratura religiosa in volgare d’ispirazione precettiva o devota. Dubbio, sbigottimento, contestazione della provvidenza divina, riconciliazione invocata ma non ancora sigillata. E la penna del volgarizzatore è contagiata dalla commozione del testo. Scrittura mossa e abile, capace d’alimentare la passione della lettera con iterazioni, apostrofi, endiadi, rafforzamenti semantici, progressioni lessicali. Prosa adulta e sicura di sé, dai nessi ricchi e di solida tenuta. La complessa articolazione del periodo già nel modello latino (n° 2) passa al volgare senza scarto. Più spesso è il volgare che cuce e subordina in impianti ipotattici d’ampio respiro. E costruisce raccordi e instaura dipendenze che danno alla prosa forza connettiva, armonia di ritmo, chiarezza di sviluppo (si veda in n° 28 il periodo che comincia «E avegna ch’io creda... »).
Ad appendice, annotiamo un altro intervento in proprio del volgarizzatore. Da solo non rilascia un’inequivoca testimonianza che restringa il cerchio intorno all’innominato volgarizzatore o ponga un termine post quem al suo lavoro, ma qualora si ricongiungesse con più esplicite testimonianze potrebbe concorrere a dar nome al volgarizzatore di Riccoldo. Dunque a titolo di pista di ricerca.
San Domenico e i suoi frati dall’occidente, san Francesco e i suoi frati dall’oriente (Ep. I n° 19-20). In n° 20 il volgarizzatore esplicita, rispetto al modello, l’episodio dell’ordalia proposta da Francesco al sultano Mâlik al-Kâmil. Il breve finale «nec tamen bestiam evacuavit» di Riccoldo diventa: «Né anco questo premisse [intendi permise] né consentì lo soldano, sì che non solamente non vinse la ditta bestia anzi li suoi seguaci cani saracini ànno poi, e a questo tenpo maximamente, molti de’ suoi santi frati» (n° 20).
«E a questo tenpo maximamente». Al tempo del volgarizzatore. Perché non si vede come costui possa introdurre in proprio l’intero brano anzi li suoi... santi frati e lo rimetta poi alla paternità e dunque al tempo di Riccoldo. Secondo le consuetudini del genere letterario, il volgarizzamento attualizza. Ànno per «detengono prigionieri» oppure suppone ucisi, parallelamente alla sorte dei frati Predicatori di n° 19?
Giovanni da Montecorvino OFM nel 1291 riparte da Tabriz verso l’India in compagnia d’un mercante e di fr. Niccolò da Pistoia OP.
■ dati conosciuti sul frate pistoiese: tra i capitolari del convento di Siena in settembre 1287: «fratris Niccholai de Pistorio» (ASS, Patrim. resti eccles., S. Domenico 10.IX.1287), lettore in filosofia della natura in Pistoia 1288-89 (MOPH XX, 86/7).
Fr. Niccolò muore poco dopo in India superiore (Maabar). Giovanni da Montecorvino comunica con lettera la morte del compagno fr. Niccolò e dà brevi notizie sull’India. Non è noto quando esattamente la lettera pervenisse in Italia. Ma appena venutone a conoscenza, «frate Menentillo de Spuleto» (identificabile con fr. Manente di Manentuccio da Spoleto OP) ne invia una versione volgare al pisano fr. Bartolomeo da San Concordio OP, del quale conosce la sete di sapere:
«Allo in Cristo frate Bartolomeo da Santo Concordio, suo per tutte le cose frate Menentillo de Spuleto, salute e sapiensia. Perciò che conosco che voi grande cura avete inn isciensia e molto sapete, e voreste tutte le cose sapere, spesialmente quelle che non sapete, e voresti avere sapimento e cognosciensia de tutte le cose, inperciò scrivo a voi certe cose le quali aguale [= or ora, adesso] sono scritte delle parte d’India superiore per uno frate Minore, lo quale fue conpagno di frate Nicolaio da Pistoia, lo quale moritte inn India superiore andando al Signore de tutta l’India. Lo messo viddi e parlai co· llui, indelle cui braccia lo detto frate Nicolaio moritte, e così testificava... » (in A. van den Wyngaert, Sinica franciscana I, Quaracchi 1929, 340; e in G. Golubovich, Biblioteca bio-bibliografica della Terra santa I, Quaracchi 1906, 306).
■ Manente (Manentello) di Manentuccio da Spoleto OP, a voler ricomporre le frammentarie testimonianze disponibili. «Item ponimus studium in theologia in conventu Florentino, ubi assignamus studentes Manetellum Spoletanum... » (MOPH XX, 112/ 23, anno 1293). «fr. Manentem Manentutii» del convento spoletino, sotto la penna del notaio, Montefalco 12.XI.1322.
Manentellus sembra preferibile a Manettellus di SOPMÆ III, 101; IV, 194.
La sete di sapere, anche dei divulgatori, si dilata ai misteri e mirabilia d’oriente, già battuto dai missionari degli ordini mendicanti, oltreché dai mercanti. Le relazioni su traversie e martirio di frati Minori in oriente degli anni 1314-1329 sono molteplici, prima fra tutte quella popolare (1330) di Odorico da Pordenone OFM (Golubovich, Biblioteca... II, Quaracchi 1913, 63-73; Wyngaert, Sinica franciscana I, 424-39: martiri di Tana). Dei quattro martiri francescani uccisi in Tana (India) dai musulmani dava notizia nel 1321, ai frati Minori e Predicatori di Tabriz, fr. Giordano di Catalano da Sévérac OP.
H. Cordier, Les Merveilles de l’Asie par le père Jourdain Catalani de Sévérac, Paris 1925, 18-28; Golubovich, Biblioteca II, 69-70. SOPMÆ III, 51-52; IV, 177.
Mirabilia descripta (1329) di Giordano da Sévérac, London, British Libr., Add. 19513: «Hec patria [Armenia maior] habitatur pro maiori parte per armenos scismaticos. Verum est quod fratres Predicatores et Minores converterunt bene iiij milia et plures, nam unum archiepiscopum magnum valde qui dominus Zakarias vocatur cum toto populo suo conversus est, et speramus in Domino quod infra breve tempus totum residuum convertetur dum tamen fratres beni vadant (f. 3va). Ibi [Thaurisii] habemus ecclesiam satis pulcram, et bene mille personas conversas ad fidem nostram de scimaticis et bene totidem in Ur Caldeorum, ubi natus fuit Abraham, que est civitas opulenta valde et distat a Thaurisio per ij dietas; similiter et in Soltania bene d vel dc, que distat a Thaurisio per octo dietas, ubi habemus ecclesiam valde pulcram (3vb-4ra). Incipit in hac prima Yndia quasi alter mundus (4va). Mirabilia sunt omnia in ista Yndia; est enim vere unus alter mundus (8va). De conversione vero illarum gencium Yndie dico quod si essent ducenti vel cccti beni fratres qui fideliter et ferventer vellent fidem catholicam predicare, non esset annus quin ultra quam x milia personarum converterent ad veram fidem nostram (11rb-va). Hii [sarraceni] sunt qui nos accusant, nos percuciunt, nos in carcere poni faciunt et lapidant, sicut de facto probavi, et quater per eos, scilicet sarracenos, incarceratus fui; quociens autem depilatus, verberatus et lapidatus, Deus ipse novit et ego qui sustinui, peccatis meis exigentibus eo quod nondum [nundum cod.] potui vitam pro fide sustinendo martyrium finire, sicut fecerunt quatuor socii mei. De cetero de me fiat voluntas Dei. Quinque etiam Predicatores et quatuor Minores fuerunt illuc meo tempore pro fide catholica crudeliter trucidati. Ve michi quia non fui una cum eis ibi! (11va).
C’è di più. Il domenicano di Pisa fr. Francesco dei Cinquini riordina le informazioni dalle lettere di fr. Giordano e stende in Sultania (Persia), sempre nel 1321, la relazione sui quattro martiri francescani trucidati dai musulmani. Il fitto movimento di missionari d’oriente, documentato dalle cronache dei conventi domenicani di Toscana, assicura la circolazione delle notizie. In questo caso lo stesso pisano fr. Francesco comunica la notizia dei martiri francescani con lettera, e reliquie accluse, alle consanguinee Teresa e Tizia dei Cinquini. Successivamente, dopo il 1333, Francesco fa ritorno alla città natale e vi muore di peste nel 1348.
Golubovich, Biblioteca II, 65, 70-71; SOPMÆ I, 386-87; IV, 83. «Frater Francischus de Cinquinis, germanus fratrum Bartholomei et Iacobi supradictorum. Accensus çelo fidei aduch iuvenis transf<r>etavit ad partes ultramarinas, et ibi utilime profecit, quia omnes fratres ibi inter infideles predicantes iuvabat in libris, pecuniis et vestibus refovendo; diuque perdurans, fuit factus episcopus in maxima civitate Thaurisii. Et post longa temporum intervalla rediit Pisas... Tandem pestifere mortalitatis anno, in Pisis pauperes et divites in infirmitatibus sine quacumque custodia visitans, elemosinas omnes sibi datas conventui statim tribuens, devenit ad finem; et in illa mortalitate ego [= Domenico da Peccioli] astiti sibi serviendo» (Cr Ps n° 206).
Riassumiamo anzitutto le conclusioni alle quali è pervenuta l’analisi del codice fiorentino Magl. II.IV.53, ff. 1-51.
Nel Trecento inoltrato un innominato volgarizzatore ha tradotto l’intero Liber peregrinationis (1299-1300 ca.) e l’Epistola I (di non molto anteriore al precedente) del domenicano fiorentino Riccoldo da Monte di Croce († 1320); la caduta d’un fascicolo iniziale e di due nel corpo del codice ha colpito gravemente l’integrità del testo. Il codice, posseduto dal pratese Francesco Buonamici, fu acquistato nel 1806 per la Biblioteca Magliabechiana di Firenze dall’allora bibliotecario Vincenzio Follini; in cattive condizioni e in parte slegato, fu successivamente restaurato. Lo stato paleografico del testo, l’intreccio degl’interventi scrittorii, la natura redazionale di molte giunte e correzioni, inducono alla spiegazione più soddisfacente: che sotto l’unica mano al lavoro si nasconda una sola persona, la quale traduce, ricopia in bella e ritocca in più punti la traduzione. Il volgarizzamento porta evidenti caratteri linguistici del toscano occidentale dell’area lucchese e pisana; tratti minori dànno precedenza al dialetto pisano. Il volgarizzatore dà prova di notevole padronanza d’una prosa toscana già adulta; risulta uomo dotto, dalla buona preparazione teologica, disposto secondo il caso ad esercitare un controllo dottrinale, verosimilmente ecclesiastico; insistenti sottolineature relative all’ordine religioso dell’autore Riccoldo, assenti nell’originale latino, fanno pensare a un frate Predicatore. Insufficiente è la glossa del volgarizzatore «e a questo tenpo maximamente» in rapporto al martirio di frati Minori in oriente, a sostenere un’allusione ai missionari francescani uccisi negli anni 1314-1329, e al più conosciuto episodio di Tana del 1321. Sorprende comunque che fosse un domenicano di Pisa, fr. Francesco dei Cinquini, a divulgare la notizia dei martiri francescani di Tana nella città natale. L’interesse dei circoli domenicani di Pisa per l’attività apostolica in oriente è testimoniato dalla lettera di fr. Manentello da Spoleto; ed è testimoniato da fr. Giordano da Pisa († ag. 1310) che nella pubblica predicazione in Firenze aveva utilizzato informazioni raccolte dallo stesso fr. Riccoldo. Entro la prima metà del Trecento due eminenti frati di Santa Caterina di Pisa erano intenti a una vasta opera di divulgazione latino-toscana: Domenico Cavalca da Vico Pisano († 1341) e Bartolomeo da San Concordio († 1346).
E veniamo all’edizione di Epistola I.
La letteratura dei volgarizzamenti registra quelli del tipo rifacimento (esempio, nel caso del Liber peregrinationis di Riccoldo, quello francese 1351 del benedettino Jean le Long da Ypres: AFP 58 (1988) 67-77) e quelli a fedele traduzione. Il nostro è palesemente del secondo tipo. Chiose e interventi esplicativi del volgarizzatore sono comuni anche a quest’ultimi, ma non d’impossibile individuazione per chi si familiarizzi col genere letterario. Il nostro volgarizzamento trecentesco può apportare qualche contributo a risanare il devastato testo latino della prima lettera? Ricordiamo che esso testimonia una fedele traduzione per quelle sezioni di scrittura non più leggibili nel quattrocentesco testimone latino V (Vat. lat. 7317), e a noi trasmesse da una copia ottocentesca che non sembra abbia paleograficamente impegnato il trascrittore; il quale a sua volta deve aver riparato qua e là per congettura brani già al suo tempo illeggibili, ma senza dirci dove. Il volgarizzamento inoltre, usato con la cautela del caso, contribuisce a restituire lezioni latine perfino contro la testimonianza di V.
Ep. I: puelle eorum et parvuli et senes cum rumoribus ad partes remotissimas... sclavi menabantur / vedevano sé e lle loro mogli, figliuoli e figliuole, esser menati schiavi (n° 2)
Il testimone latino servito al volgarizzatore portava uxoribus, che non si ha dubbi a restituire al posto dei «rumori» di V.
Amaritati (n° 3) di V poteva già essere emendato con amaricati di CLS prol. 65, ben confortato da con lamento di F (= volgarizzamento del nostro codice fiorentino).
Nec mirum si mirabilia facis, primo multum esset mirabile si mirabilia non faceres / Ma certo non è da maravigliare se ttu.... fai cose mirabile, ansi pió tosto sarebbe da maravigliare se cose mirabili non facessi (n° 5)
F suggerisce un ymo (= immo), che scritto con punto su y come d’abitudine, ha generato la lettura primo.
sibi literas insultacionis ad invicem mittunt / e insieme congaudendosi della vittoria c’ànno contra di noi, sìe si scriveno (n° 9)
F leggeva literas exultationis? Ma non emendo, sia perché la lettera può esser d’insulto in rapporto ai cristiani, sia perché poco dopo ricorre «non solum sarraceni nobis insultant sed eciam iudei et tartari». Vedi anche «voce insultacionis» in n° 27.
O Domine quod altaria tua / O Signore, or non pensi quanti tuoi tenpi (n° 16)
Già R (l’editore Röhricht) aveva restituito l’ovvio quot.
Et tunc lacrimando pregando dixi / E allora per grande allegressa lagrimando dica (n° 18)
Già R aveva restituito per congettura pre gaudio in luogo di pregando. Si noti che Nam ego non recuso... (n° 18) oggi illeggibile in V, è ben corroborato da F.
et propicius ero eis / e propitio verso di tutti (n° 26: di tutti è preceduto da di voi cassato)
La citazione biblica, Ierem. 5,1, è propicius ero eius in un autorevole testimone della Volgata parigina allora in uso, propitius ero ei nella Clementina; ma tutti (e voi) di F depone a favore d’un plurale nel testo riccoldiano, eis, ora incertamente leggibile in V.
quia volebat populum inultum liberare / el quale voleva liberare lo populo tuo (n° 27)
La lezione inultum è di R, mentre V è illeggibile. Ma è difficile accogliere senza riserve tuum suggerito da F. Il contesto oppone «molti» a «pochi». Poco dopo, n° 28, ci s’imbatte in «cum multo populo» così come in n° 26 si era detto «cum multis christianis». In Ep. IV, f. 264r (ed. 290,31-32) in riferimento allo stesso episodio si ha: «qui tantum cogitabat liberare multum populum». Restituisco multum.
Il testo di Epistola I ricontrollato sul codice Vaticano dove ancora leggibile, confrontato col latino riccoldiano dei codici d’autore, migliorato con taluni contributi del volgarizzamento e da questo sostenuto là dove trasmesso soltanto dalla problematica trascrizione ottocentesca, ne esce notevolmente più sicuro. Nelle note:
V = Vaticano lat. 7317, ff. 249r-253r
R = edizione Röhricht, solo quando V vien meno perché illeggibile (= inl. V) o incertamente leggibile (= (?) V)
F = volgarizzamento toscano, Firenze, Bibl. Naz., Magl. II.IV.53, ff. 26r-33v
Medesima numerazione dei capoversi in latino e in volgare permette il raffronto tra i due testi. L’edizione del volgarizzamento segue i consolidati criteri fono-sintattici per testi letterari. Distinzione delle maiuscole/minuscole, divisione delle parole, segni diacritici, interpunzione moderna (discreta e sulla scorta dell’originale), diversificazione di u e v. Uniformate sono soltanto le varianti puramente grafiche della rappresentazione di suoni velari (cha, gha... = ca, ga ... ) e palatali (gl, lgli, lglo... = gli, glio... ; leggie = legge; ngn = gn); prevalgono i gruppi nm e np, e così sciolgo quelli coperti da compendio. La congiunzione, ricorrente indifferentemente sotto le convenzioni grafiche 7, et, e, è sempre resa con e.
Cf. Schiaffini LV; Castellani, Nuovi testi 15, che riporta scritture del tipo 7 degli (= ed egli), 7 deie (= ed èie). Nel nostro volgarizzamento et deui (= ed èvi) (2r6ult), et dellino (= ed ellino) (8v7), 7 dera (= ed era) (12r8), etco (= ecco) (Ep. I n° 18).
caratteristiche linguistiche del
volgarizzamento
Soltanto a confronto con testimonianze dalla piena affidabilità filologica,
circoscritte nell’area linguistica ed eventualmente attribuite, si potrebbero
individuare e valutare le caratteristiche personali del nostro volgarizzatore.
Annoto:
- evita ossitoni facendo ricorso a epitesi (nelle forme verbali quasi
sistematicamente: mandoe, porroe... );
- abbonda in palatali:
cognoscere, saglire, pogniamo, tegniamo, oglio, capegli;
- e tonico si
dittonga in lievo, liepra, riei, nieve, diecima;
- sempre scempi
ucidere, acusare, cità;
- metatesi in plubico, plubicamente;
scrive
utimo (= ultimo);
- postrione (21r7) è «ano»;
- fralmente per
«tra, in mezzo a» (3v8ult; 3v2ult), non ritrovato nei dizionari;
- fa ampio uso
del gerundio, anche con valore participiale;
- nel tradurre ricorre frequentemente
all’endiadi: suscitasti > sucitasti e chiamasti; non videam > non la
vegga né provi; gubernas > governi e reggi; perpetua > sonma e
etterna; magne virtutis > molto valente e ardito; sublimibus >
vani e alti; deiciam > sconfigga e vinca; non recuso > non recuso
e non mi ssdegno; verbera > battiture e ciotte.