Bisogna anzitutto dar atto a padre Basetti-Sani dei propositi iniziali - pastorali e teologici - che condivido col medesimo entusiasmo: a) aiutare il mondo cattolico a liberarsi da pregiudizi e antipatie congenite per i musulmani (ma spesso l’ignoranza sopravanza l’antipatia); a ricostituire una storiografia imparziale e documentata della figura di Muhammad; b) sottoporre la storia delle relazioni cristianesirno-islàm al giudizio della lex evangelii o, comunque, dell’evangelismo medievale che, denunciando la risposta militare delle crociate, ripropose la missio come proclamazione della parola di Dio e testimonianza della santità evangelica; c) umiltà di fede a riconoscere quanto di «vero e santo» Dio abbia profuso in ogni punto della storia e della geografia umana; d) impegno di fede e di vita nel dialogo interreligioso sulla scia del Vaticano II.
Questi i propositi e le intenzioni d’avvio. Ma di quanto si trova oltre le buone intenzioni, pressoché nulla è credibile di quanto scrive BS. Anzi la “sua visione” dell’islàm inghiottisce finanche i buoni propositi iniziali. Sorvolerò i dettagli. Mi limiterò a mostrare l’inconsistenza della teoria di BS su i punti portanti:
1) la discendenza etnica degli arabi da Abramo è storicamente insostenibile; è comunque irrilevante ai fini d’una teologia delle religioni;
2) l’interpretazione cristiana del corano e dell’islàm è un falso ermeneutico;
3) le «relazioni meta-storiche» che presumono inserire l’islàm nella «storia» della salvezza sono la manomissione dei più elementari presupposti d’una qualsiasi storiografia e - in particolare - della teologia della storia;
4) l’immagine dell’islàm proposta da BS è la dissoluzione stessa del dialogo islamo-cristiano.
E’ l’assunto da cui BS, al seguito di Y. Moubarac e M. Hayek, deriva sia il giudizio di teologia cristiana circa l’inserimento dell’islàm nel «mistero abrahamitico» della storia della salvezza, sia tutta la reinterpretazione del corano (l’A. invero si discosta anche da Hayek perché questi, a suo avviso, accentua più l’aspetto ismaelitico che abrahamitico del riallaccio biblico della fede islamica: cf. «Renovatio» 4 (1973) 606-24)
Ora la discendenza carnale degli arabi da Abramo
a) non è provata dalle ragioni indotte da BS.
- Gen. 21,13 promette ad Ismaele una grande nazione per discendenza; Ismaele errò per il deserto di Bersabea (ib. 21,14), abitò il deserto di Paran e sposò una donna «della terra d’Egitto» (ib. 21,21). La bibbia non stabilisce alcun legame etnico tra Ismaele e gli arabi.
- Il corano è il primo testo letterario che testimonia la rivendicazione dei credenti-muslimîn alla fede «originale e pura» di Abramo (Cor. 2,135). L’espressione «Nazione di Abramo» (milla: Cor. 2,130.135) che s’intreccia con quella di «comunità dei credenti» (umma: Cor. 2,128. 134) ha una connotazione prevalentemente religiosa (comunità di fede monoteistica, contro il politeismo preislamico della penisola arabica). La discendenza carnale degli arabo-musulmani da Abramo non vi è espressamente affermata o rivendicata. L’esegesi musulmana intenderà il ricorso ad Abramo come riallaccio di fede e di sangue ad un tempo. Che è un comprensibilissimo tratto della psicosociologia semitica, biblica inclusa: asserire la fedeltà d’una tradizione religiosa attraverso la continuità della successione carnale.
- I testi medievali, cristiani ed ebraici, sono successivi alla rivendicazione coranica e dipendono ovviamente da quest’ultima. Di più. I teorici della teologia della guerra abbozzata nei secoli delle crociate e gli stessi documenti pontifici del tempo trovano confacente accettare la versione “arabi ismaeliti” o “arabi agareni” per puntellare l’affronto militare: Eice ancillam hanc (Agar) et filium eius... (Gen. 21,10). I polemisti cristiani orientali proprio argomentando dai “musulmani-agareni” ne fanno «figli della schiava» di cui in Gal. 4,22-31, e quindi esclusi dalla salvezza.
b) è storicamente insostenibile: né la storiá, né l’archeologia, né l’onomastica dell’Arabia pre-islamica conservano traccia della presunta discendenza etnica degli arabi da Abramo - ricorda lo storico dell’islàm R. Dagorn (cf. Revue Thomiste 74 (1966) 126). Certo in questo campo molte ricerche devono ancora esser condotte. Ma allo stato attuale delle nostre conoscenze, niente ci permette di colmare - nota ancora Dagorn - i 20 o 25 secoli di vuoto storico che separano Abramo dal profeta dell’Arabia. Lo stesso Dagorn ha recentemente portato a termine una ricerca storico-filologica sull’onomastica dell’Arabia pre-islamica. Il lavoro è sotto stampa. Ma l’A. mi ha confidato, a voce, i risultati a cui è pervenuto: nessuna traccia di nomi biblici nell’Arabia pre-islamica che possa suffragare persin l’ipotesi d’un legame etnico tra abitanti della penisola arabica e l’Abramo biblico.
c) è teologicamente irrilevante in ordine ad una storia della salvezza. Gen. 17,21: «Ma stabilirò la mia alleanza con Isacco che Sara ti partorirà» segue proprio la promessa della discendenza ad Ismaele. San Paolo sottrae la “promessa” alla discendenza carnale di Abramo e la costituisce nella “discendenza nella fede” (Rom. 4,13-25). La comunità dei credenti elude sia la stirpe d’Ismaele che quella d’Isacco. La chiesa è il nuovo Israele. La legge della salvezza non è la legge dell’etnìa.
d) termina a una discriminazione razziale respinta dallo stesso islàm: la umma, o comunità dei muslimîn=credenti, si costruisce al di là d’ogni razza e nazione. I musulmani non-arabi (i quattro quinti di tutti i musulmani del mondo) sono muslimîn allo stesso titolo. L’accanimento d’avallare una tradizione di fede con una discendenza carnale tanto improbabile quanto inutile, suscita nel teologo cristiano una rissa d’altrettanto futili questioni: se la comprensione dell’islàm nella storia della salvezza è ricondotta alla discendenza carnale degli arabi, come render ragione della fede dei musulmani non-arabi? come render ragione della fede degli arabi non-musulmani? come render ragione della fede di chi non è né arabo né musulmano? eccetera eccetera.
Nella fase preparatoria dei testi conciliari sull’islàm (intersessione 1964) una commissione dello schema sulla chiesa introdusse (cap. 2, n. 16) il seguente testo: «Non sono estranei alla Rivelazione fatta ai Padri i figli d’Ismaele che, riconoscendo Abramo come loro padre, credono anche al Dio d’Abramo». Una nota precisava che i «figli d’Ismaele» erano i musulmani. Quando si pensò ad un testo indipendente per i non-cristiani (Dichiarazione), il card. Bea incaricò islamologi di professione della preparazione del nuovo testo. La formulazione finale (la si confronti con quella della fase preparatoria) suona cosi:
Ma il disegno di salvezza abbraccia anche coloro che riconoscono il Creatore, e tra questi in particolare i Musulmani, i quali, professando di tenere la fede di Abramo, adorano con noi un Dio unico, misericordioso, che giudicherà gli uomini nell’ultimo giorno (Lumen gentium c. 2, n. 16; cf. R. Caspar, La religion musulmane, in AA.VV., Les relations de l’Eglise avec les religions non chrét., Cerf 1966, 203-205).
Il testo definitivo rifiuta di prender posizione su due tesi controverse: a) che l’islàm sia una religione biblica riallacciabile alla rivelazione abramitica (islàm = scisma prebiblico: J. Monchanin, in «Bull. des Missions» 1 (1938) 10-23; M. Hayek, Le Mystère d’Ismaël, Paris 1964; islàm = eresia biblica: De Menasce, in «Nouv. Rev. de Sc. missionn.» 1945, p. 251; islàm = mistero abrahamitico nella linea d’Ismaele: Y. Moubarac, Basetti-Sani...); b) che gli arabi discendano etnicamente da Abramo attraverso Ismaele.
BS gioca tutta la sua posta a carte scoperte. E bisogna essergliene grati. Il critico si vede risparmiata la fatica di scovare premesse dissimulate, di rintracciare intenzioni remote, di trarre in luce ambiguità di sottobosco.
a) Sull’assunto del riallaccio etnico-religioso degli arabi-musulmanì ad Abramo, tutta la predicazione di Muhammad e la composizione stessa del testo coranico sono ipso facto inclinate grammaticalmente e sintatticamente a rivendicare la fede d’Abramo contro gli ebrei d’Arabia: «Intuii chiaramente che non era stato Muhammad ad imparare dagli ebrei, ma che invece egli aveva avuto una missione per annunciare agli ebrei della Mecca e di Medina, la veritá della via dell’al di là, della resurrezione dei morti, del giudizio, della messianicità di Cristo e la santità di Maria sua madre» (Reint. 43). I destinatari dei versetti coranici e gli interlocutori dei tratti polemici della predicazione di Muhammad sono esclusivamente gli ebrei.
b) Programma ermeneutico: lettura del testo coranico alla luce del Cristo (Dial. 42-43): cogliere le nozioni coraniche -> stabilire il significato delle parallele nozioni bibliche -> iniettare il significato biblico nella controparte coranica (Dial. 10-18). L’esegesi del corano, come quella del vecchio testamento, dipende dalla chiesa (Dial. 42).
Programma che l’A. mette in atto con inimitabile coerenza. Premiata da insospettate lievitazioni cristiane del nucleo più coranico del corano (esempi sopra in Parte I).
Ora tutto ciò, se ammirevole per l’intenzione di “valorizzare” l’islàm (ma perché l’islàm dovrebb’esser valorizzato “dal di fuori”?) non può non esser definito che un pasticcio ermeneutico. Creda pure BS alla discendenza abramitica degli arabi. Ma come può questo permettergli di far violenza ai termini grammaticali, filologici e persin geografici con cui il testo letterario del corano si costruisce in coerenza semantica e autonomia culturale? L’A. vuol leggere o ri-interpretare il corano in «chiave cristiana». In base a quale pur fragile amminicolo di scienza dell’interpretazione? Il corano, come la predicazione di Muhammad e il tutto storico dell’islàm, è nato e si è costruito all’interno d’un movimento storico-culturale con caratteristiche proprie dalla lingua alla locazione geografica. Un testo letterario nasce e ottiene il messaggio all’interno del sistema di significazioni da cui mutua le proprie possibilità semiotiche. Solo l’area antropo-culturale (o la sua ricostituzione critica), culla e portatrice d’un testo letterario, ne è autentica interprete (autentica = capace di disfare i segni che codificano un messaggio). L’interpretazione è correlativa alla natura del testo. E’ questione, in fondo, degli elementi primi d’un’ermeneutica qualsivoglia, se questa ha da assicurarsi e la comprensione dell’identità culturale d’un testo e le possibilità di decodificarne il messaggio. Prevaricare siffatti elementi significa rincorrere attività letteraria al di là d’un sistema dato di significazioni. Sarà allora la creatività della fantasia. Legittima e preziosa, com’è preziosa la poesia e la favola. Ma non è più il momento specifico d’una lettura critica d’un testo letterario. Leggere il corano con la chiave cristiana (decodificare un sistema di segni A con l’ermeneutica B) equivale a non leggerlo affatto. E a fargli violenza.
E perché - poniamo - non leggere la bibbia con la “chiave coranica”? Gli apologisti musulmani l’hanno fatto. Partendo da Cor. 7,157; 61,6 («E quando disse Gesù figlio di Maria: O figli d’Israele! Io sono il Messaggero di Dio e a voi inviato, a conferma di quella Torah che fu data prima di me, e ad annunzio lieto di un Messaggero che verrà dopo di me e il cui nome è Ahmad!») hanno tentato anche loro di leggere la bibbia in chiave coranica. E han trovato - con la stessa consolazione con cui BS trova nel corano i misteri cristiani - che il profeta Muhammad era preannunciato in Deut. 18,15-18; 33, 2; Mat. 13,31; 21,33-44; Mc. 12,1-11; Lc. 20,9-18; Giov. 1,22; 14, 16,26. Il commentatore al-Râzî († 1210) glossa il paràkletos di Giov. 15,26 («Quando verrà il Consolatore, che io vi manderò dal Padre, lo Spirito di verità che dal Padre procede, egli mi darà testimonianza») con Rûh al-Haqq (= spirito di verità). Più tardi si dirà che l'originale testo greco è stato manipolato dai cristiani i quali hanno sostituito paràkletos all’originale perìklytos (celebre, lodato). Ora «lodato» è appunto il senso di Ahmad di cui Cor. 61,6. E Ahmad è della stessa radicale (HMD) di Muhammad, che vuol dire appunto «lodato».
O bisogna ancora ricordare a BS che l’“esegesi islamica del nuovo testamento” prova biblicamente la poligamia dalla parabola delle dieci vergini in attesa dello sposo? Alla facoltà di Scienze Islamiche di Lahore, il professore d’esegesi coranica così ristabiliva recentemente il testo critico del vangelo: Gesù non tramutò l’acqua in vino ma il vino in acqua, visto che... il corano proibisce gli alcolici.
L’ilarità dell’epilogo sopravanza il pasticcio delle premesse.
E l’esegesi “musulmana” della bibbia è stata praticata (e lo è ancora) da polemisti ed apologeti dell’islàm (cfr. Anawati, Polémique, apologie et dialogue islamo-chrétiens. Positions classiques, médiévales et positions contemporaines, «Euntes Docete» 22 (1969) 375-451). Dico «polemisti» ed «apologeti» perché lo scavalcare il fossato per recuperare surrettiziamente le spoglie di guerra, non può che marcare il momento polemico ed apologetico del confronto di due sistemi religioso-culturali. BS percorre lo stesso tragitto in senso inverso: introduce surrettiziamente le proprie vettovaglie nel campo altrui per poi spartirle magnanimamente come proprietà comune. Vi soggiace la convinzione che debba essere il cristianesimo a «valorizzare» l’islàm, e ci si affretta a iniettare valori o significati cristiani. La generosità trabocca. Ma al fondo vi si ritrova l’idea che le altre religioni non hanno valori propri; che i loro significati salvifici son tali solo se letti e interpretati “alla luce cristiana”; che l’impegno di Dio che salva è costretto nell’esiguo segmento di storia umana che unisce Abramo a Gesù di Nazaret.
Accetterebbe BS la “reinterpretazione” che gli esegeti musulmani fanno di Giov. 15,26? Probabilmente no, visto che ha da proporre una contro-lettura cristiana del coranico al-haqq:
«Può apparire sorprendente il fatto che se in alcuni testi dove s’incontra al-haqq = la verità, questa parola la sostituiamo [proprio così: l'interpretazione alla BS risulta sostituzione di significati] con «Gesù Cristo», il quale nel vangelo si è detto essere la verità (Giov. 14,6), questi testi s’illuminano di tutto un nuovo significato» (Reint. 179).
Allora: è il neotestamentario «Paraclito-Consolatore» a preannuncia Muhammad o è il coranico Rûh al-Haqq a rimandare a Gesù Cristo?
Lasciamo che BS e il collega musulmano si contendano l’osso. Il problema, in fondo, non è denunciare due discorsi che dissimulano il medesimo integrismo teologico: “sono io ad intendere, in verità e profondità, il tuo testo sacro; il vero e il buono che fossero presso di te sono, alla fin fine, miei; in ogni caso son talmente generoso da darti, anche a tua insaputa, del vero e del buono”. Né è questione di voler gelosamente preservare la purezza della mia fede dalle deformazioni altrui. E’ che ambedue i discorsi derivano da una lettura del testo letterario che prevarica i più elementari requisiti della critica testuale. La lettura cristiana» del corano è anzitutto un pasticcio ermeneutico. Come sarebbe un pasticcio ermeneutico leggere - poniamo - l’Avesta alla luce coranica, la bibbia alla luce delle Upanishad, l’epica di Omero alla luce del Mahâbhârata, il Bhâgavat-gita alla luce delle Enneadi di Plotino, il Libro dello Zohar alla luce del Cantico spirituale di Giovanni della Croce...
La dilatazione che la fantasia popolare o il linguaggio profetico impone ad esperienze spirituali divenute “tipi” è d’indubbio interesse per lo storico delle religioni, come lo sono grandi eventi storici o personaggi di spicco. Ma un’esegesi critica deve accettare il testo come luogo della interpretazione. Il desiderio di Muhammad di vedere Dio in forma d’angelo al termine del mi‘râj sarà oggetto di studio per analizzare i moduli mitico-linguistici con cui il commentario popolare verbalizza esperienze religiose a-spaziali e a-temporali. Al pari di quanto accaduto a san Francesco sulla Verna, e - se si vuole - del “rapimento al terzo cielo” dello stesso san Paolo, «se col corpo o fuori del corpo io non so» (2 Cor. 12,2).
BS ha tutto il diritto di credere alla reale-corporale ascensione di Muhammad da Gerusalemme al cielo, così come alla reale-corporale cristofania («la prima vera apparizione di Cristo dopo l’ascensione») della Verna. Ma quale il fondamento storico e teologico per mettere in relazione le due esperienze religiose - di Muhammad e Francesco d’Assisi - in ordine alla comprensione dell’islàm all’interno della storia della salvezza? (cf. Dial. 438). L’ordalia, o prova del fuoco - si risponde -; quella di Medina (mubâhala) offerta da Muhammad e rifiutata dai cristiani di Najrân, e quella di Damietta offerta da san Francesco e rifiutata dal sultano al-Kâmil.
Così puntellando la “trans-storia” da una parte sull’interpretazione dilatativa dell’esperienza di Muhammad di cui Cor. 53, 4-18; 15, 1; dall’altra su una forma tanto caduca del fenomeno religioso quale l’ordalia (irrilevante al cuore del cristianesimo), l’A. stabilisce «le corrispondenze trans-storiche (che) possono reperirsi in questo meraviglioso piano di Dio, tutto tendente a nostro Signore G.C., e che forma svolgimento della storia della salvezza» (Dial. 461). Ora «queste corrispondenze appartengono alla storia della salvezza: a quell’ordine di eventi meta-storici, che devono esser veduti nella luce transtorica e soprannaturale di Cristo, re della storia» (Dial. 59).
Personaggi, fatti, esperienze sono estrapolati dalla loro collocazione reale e ricomposti, dopo debito trattamento, in combinazioni tanto arbitrarie quanto “trans-storiche” . L’abbinamento di fatti remotamente paralleli - strappati dal loro fluire storico, giustapposti secondo affini tumefazioni di linguaggio metaforico, distorti da un affuoco su dettagli periferici, evocati da epoche distanti per comparire sul medesimo proscenio - ha di tutto eccetto che di storia, e tanto meno di teologia della storia della salvezza. Che ha a che fare l’ascensione di Muhammad col serafino apparso sulla Verna? Che ha a che fare il serafino della Verna con le ordalie di Medina e Damietta? Che hanno a che fare serafino e ordalie con Maria-Margherita Alacoque? Che hanno a che fare quelli e questa col Cristo, unico discrimine della storia che salva?
Eppure BS si era creato lo spunto per una escursione credibile tra le gradualità temporali e le geografie umane in cui la storia della salvezza tesse le proprie occasioni. I cc. VI-VII di Dial. (La crisi della Chiesa nel XII e XIII sec.; S. Francesco e la sua missione profetica per l’Istam nella Chiesa) testimoniano buoni propositi. La critica alla chiesa in stato d’infeudamento temporale non può che esser condivisa. Così come lo storico della teologia non può non riconoscere nel cap. 16 della Regola I dei frati Minori (La Regola «non bollata» dei 1221) l’apice dell’evangelismo di Francesco e il recupero del modello di vita degli apostoli per restaurare la legittimità evangelica della proclamazione della Parola. E questa era una pista buona per una ricerca intesa a fissare i momenti tipici e normativi della storia che salva. Si sarebbe potuto determinare con più nettezza storica e teologica il cardine su cui Francesco capovolge la crociata in predicazione evangelica. Nello stesso tempo ci si sarebbe facilmente dissuasi dal rincorrere epiloghi celebrativi che apron la finestra a voli trans-storici. La collocazione di Francesco entro il più ampio movimento di ri-evangelizzazione della missione presso l’islàm avrebbe trattenuto il contributo del santo d’Assisi all’interno dei termini cronologici in cui si situa la sua esperinenza. Le misure, sia pure anguste, della storia della chiesa marcano i limiti dei seguaci del Cristo, ma rivendicano nel contempo le uniche occasioni della storia che salva. Sarebbe stato utile, ad esempio, per la comprensione delle occasioni evangeliche della storia (e non meta-storia) chiedersi perché il bellissimo cap. 16 della Regola I (De euntibus inter saracenos et alios infideles: cfr Francisci Ass., Opuscula, Quaracchi 1949, 43-46) praticamente scompare nella Regola II (R. «bollata» da Onorio III e definitiva, 1223)? Ne rimane il titolo, cap. 12 e ultimo di Regola II). Il contenuto è solo un’esortazione ai frati a chiedere il permesso (licentiam) dei superiori qualora «voluerint ire inter saracenos et alios infideles» (Opuscula, p. 73). Così pure non è «storico» far di Francesco il campione ante litteram del dialogo inter-religioso tipo Vaticano II (Dial. 428-30). L’evangelismo del tempo propugnò una predicazione «sine militaribus armis». Ma l’apologia e la polemica della confutatio rimasero l’anima del confronto islàm-cristianesimo. E san Francesco fu uomo del suo tempo. Davanti al sultano fece il seguente discorso: «Noi siamo pronti a dimostrarvi la verità della nostra fede e la falsità della vostra anche alla presenza dei vostri dottori...; e se noi non dimostreremo loro la verità di quanto vi diciamo, che cioè la vostra legge è falsa, fateci pure tagliar la testa» (Dial. 374).
Allora, anziché le relazioni trans-storiche, sarebbe stato più saggio stabilire le occasioni storiche dell’atto profetico di Francesco all’interno della riproposta dalla missio evangelica presso l’islàm, così come si vien configurando da Pietro il Venerabile a Raimondo da Pennafort a Raimondo Martí a Guglielmo da Tripoli a Raimondo Lullo a Riccoldo da Monte di Croce.