⌂ Lapina del Libero Spirito (1327) | ||
1 | Lapo, Lapina e Filippo, in borgo della Noce | |
2 | Lapina inquisita da fra Accorsio Bonfantini OFM | |
3 | Quale eresia? «Libero spirito» | |
4 | Inquietudini spirituali del Trecento fiorentino | |
5 | «Carte della madre di fra Filippo, poco utili»! | |
Lapina, fiorentina, è vedova di Lapo deceduto prima del 1327, del popolo San Lorenzo. Hanno un figlio, Filippo, che nel 1318 si fa frate domenicano nel convento fiorentino Santa Maria Novella: sacerdote, predicatore, cantore; conventuale in Pistoia 1328, studente in filosofia a Lucca e Siena 1331-33, studente in teologia a Firenze 1338; baccelliere in San Miniato 1341, lettore in Bevagna 1344; sottopriore in San Miniato; trascorre 30 anni in religione, muore il 7 luglio 1348, anno della grande mortalità, nell’ospizio conventuale d’Incisa Val d’Arno (ASMN I.A.1 Cronica fratrum f. 36r, n° 377; cf. S. Orlandi, "Necrologio" I, 79, 424, che ignora Documnenti I-III di cui sotto).
A partire dal 1319 Lapina aderisce per la durata di otto anni “a quella setta dello spirito, i cui membri attraverso ereticali percorsi presumono di raggiungere in questa vita tale stato di spirituale perfezione da divenire alieni da ogni peccato”. Sono pressappoco le parole dell’inquisitore francescano nella provincia della Tuscia, fra Accorsio di Ghinuccio Bonfantini da Firenze. Fra Accorsio inquisisce Lapina e la condanna per eresia in settembre 1327; pentita, le rilascia lettere patenti (31 ottobre 1327, Doc. I) che testimoniano abiura, assoluzione dalla scomunica incorsa, riammissione in seno alla chiesa, giuramento e pene.
Tra le disposizione inquisitoriali, la confisca della casa sita nel popolo San Lorenzo, nel borgo della Noce, confinante con via della Noce e via della Stufa (sopravvivono entrambe sul lato nord di San Lorenzo, parallele a via Ginori, nel già borgo della Noce in gran parte sventrato per far posto al Mercato Centrale). Lapina trasloca provvisoriamente in abitazione periferica, nel popolo Santa Lucia al Prato. Ha modo tuttavia, tramite molteplici trapassi di rivendita, di riscattare in tempi brevi la casa di borgo Noce; e di rientrarne in pieno possesso. Vendite e rivendite di comodo - fanno credere la disparità dei prezzi -, espediente per ripulire la casa da ogni vizio o ipoteca inquisitoriale. Fa da intermediario, anzi da prestanome, il figlio fra Filippo. Firenze 18 novembre 1327: ser Antonio di Gano notaio, sindaco e procuratore del comune fiorentino, vende a fra Filippo del fu Lapo OP la casa con tutte le sue pertinenze sita nel popolo San Lorenzo, borgo della Noce, già proprietà di Lapina vedova di Lapo e confiscatale a motivo del crimine d’eresia, al prezzo di fiorini d’oro 13 (Doc. II). Firenze 15 giugno 1328: «fra Filippo figlio del fu Lapo da Firenze dell’ordine dei Predicatori, frate conventuale in Pistoia, in qualità di sindaco e procuratore del capitolo e convento pistoiese dell’ordine dei Predicatori» rivende a Lapina la medesima casa con tutte le sue pertinenze al prezzo di lire 500 (libras quingentas) di moneta argentea (Doc. III). Lire 500 sono pari a fiorini 125, se prendiamo una valutazione massima di cambio a ragione di lire 4 (= soldi 80) per fiorino, di fatto mai raggiunta nel Trecento.
L’ufficio dell’inquisizione, come risulta dal libro di contabilità di fra Accorsio, in novembre 1327 incamera dalla vendita dei beni confiscati a Lapina (indistinti nella registrazione) fiorini d’oro 8 e soldi 44 di piccoli, pari a due terzi; un terzo per lo stesso ufficio inquisitoriale e un terzo da devolvere alla camera apostolica (Arch. Segr. Vat., Collectorie 250, f. 98r, senza data propria). L’altro terzo era di spettanza del comune fiorentino. Fiorini 8 e soldi 44 (due terzi) sommati a fiorini 4 e soldi 22 (terzo spettante al comune) danno un totale di fiorini 12 e soldi 66; che sono pari a fiorini 13 sulla base del cambio in corso fiorino 1 = soldi 66. La coincidenza dei valori monetari lascia pochi dubbi che l’entrata nel registro inquisitoriale sia nient’altro che i due terzi dei 13 fiorini ricavati dalla vendita della casa di Lapina 18 novembre 1327 (Doc. II) e non frutto di confisca d’altri beni dell’eretica. La registrazione dell’entrata Lapina nel libro dei conti dell’inquisitore suppone pertanto il 18 novembre 1327, data che ben si accorda alla registrazione immediatamente precedente di Cecco d’Ascoli, mandato al rogo il 16 settembre 1327, e alla seconda registrazione successiva a Lapina datata 23 novembre 1327. Quanto al terzo spettante al comune, esso andò a sostenere per due parti le spese di costruzione della chiesa Santa Croce e per una parte quella di SMN, se le autorità pubbliche dettero corso alla provvisione del 6 aprile 1324 (Arch. di Stato di Firenze, Dipl. S. Maria Novella 6.IV.1324, esemplato «ex constituto domini potestatis et comunis Florentie»).
L’eresia cui Lapina aveva aderito è eccellentemente identificabile: la concisa formulazione dell’inquisitore ricalca in parte la costituzione Ad nostrum (6 maggio 1312) del concilio di Vienne (valle del Rodano). L’Ad nostrum condannava le posizioni «de spiritu libertatis», infiltratesi tra beghine e begardi di Germania; costituzione inserita nella collezione ufficiale delle decretali Clementinae promulgate il 25 ottobre 1317 (Clementinae V, 3, 3: Corpus iuris canonici, ed. Ae. Friedberg, Graz 1959, II, 1183). Eresia denominata del «libero spirito». Le sue origini si riallacciano ai fermenti dell’evangelismo laico pauperistico del XII secolo, che si qualifica nel corso del XIII e raggiunge massima fioritura e affermazione nel secolo successivo. Non una setta vera e propria, non istituzionalmente organizzata; piuttosto un moto spirituale che si propaga per diffrazione, contagiando altri più definiti movimenti e istituti religiosi due-trecenteschi - dalle fratemite laiche dell’ordine della Penitenza ai beghinaggi a comunità laiche ruotanti attomo agli ordini Mendicanti - riversandosi negli Apostolici di Gherardo Segarelli da Parma e nei segnaci di Dolcino da Novara; incrociandosi talvolta perfino con gli Spirituali francescani e Fraticelli. Il testo più diffuso è il Miroir des simples âmes (1290 ca.) di Marguerite Porete, condannata al rogo nel 1310; ben due traduzioni trecentesche circolavano in volgare italiano. Dal Miroir sono elaborate le proposizioni condannate dall’Ad nostrum del concilio di Vienne.
Innestato sul tema biblico della libertà del cristiano, il percorso spirituale - sospinto da un acuto e intimo assillo mistico - giunge a una teopatia diretta e liberante. Esperienze d’antica tradizione gli prestano parole d’intonazione panteistica. Il Miroir della Porete descrive le tappe (degrez o estaz) del cammino dell’anima «de libero spiritu». Toccata dalla grazia e liberata dal peccato mortale, l’anima si esercita nell’ascesi dell’osservanza dei comandamenti (1° stato), dei consigli (2° stato), dell’obbedienza (3° stato), pervenendo a una sorta di contemplazione acquisita, ripiena di gaudio ed ebbrezza spirituali, affrancata ormai da occupazioni esteriori e da vincoli d’obbedienza (4° stato). L’anima matura quindi il passaggio dal tutto del peccato al tutto di Dio, cosicché è Dio stesso che vuole ed opera nella volontà e nelle opere dell’anima (5° stato); e questa consuma il perfetto assorbimento e annientamento in Dio (6° stato). Già nel quinto stato l’anima, stabilita nella grazia tramite l’identificazione col volere divino, è sottratta a ogni lusinga di peccato, diventa anzi impeccabile (cf. R. Guarnieri, Il movimento del libero spirito. Testi e documenti, «Archivio italiano per la storia della Pietà» 4 (1965) 351-708, con ed. del Miroir). È il punto colpito dal primo articolo della costituzione viennese, a cui rimanda il testo dell’inquisitore fiorentino fra Accorsio. Ma al brano ripreso dalla decretale Ad nostrum, Accorsio premette l’evocazione del percorso spirituale attraverso molteplici stadi; non lo si ritrova nella costituzione viennese, fa eco invece alla dottrina del libero spirito così come volgarizzata dal Miroir des simples âmes di Marguerite Porete: «septatores cuius per alíquos insolentes hereticos et prophanos gradus et attus».
Alla teopatìa teorizzata nel quinto stato non poteva non seguire una mistica quiete (apatheia) che dichiara superati ogni pratica delle virtù cristiane, ogni frequentazione dei sacramenti e preghiera liturgica, ogni esercizio delle opere penitenziali eccetera. Il superamento insomma della mediazione storica e istituzionale della chiesa: dei suoi sacramenti e ministeri come della sua catechesi, della sua pastorale ascetica come della sua pubblica liturgia. Le pene inflitte a Lapina, sebbene in parte convenzionali in atti inquisitoriali, sembrano ben rispondere al principio terapeutico dell’antidoto. Due dande a croce (lunghezza due palmi, larghezza quattro dita) color zafferano, una al petto l’altra alle spalle, da esibire in pubblico quale segno visibile di ritrattazione, fino ad eventuale dispensa; digiuno a pane e acqua tutti i venerdì per lo spazio d’un anno; attendere nei giorni festivi messa e predicazione; confessarsi, per il resto della vita, almeno due volte l’anno e ricevere il sacramento dell’eucaristia; recitare quotidianamente per cinque anni venticinque Pater noster e altrettante Ave Maria; tempi e luogo della carcerazione a discrezione degl’inquisitori; interdizione inoltre d’indossare l’abito di qualsiasi ordine religioso.
Il movimento del libero spirito aveva dato esca, in frange avventizie ed errabonde, a comportamenti meno esigenti di perfezione cristiana; perfino a decantare in bizzarrie e licenziosità remote frustrazioni di povertà. Nulla di tutto ciò nel caso Lapina, ché l’inquisitore non avrebbe mancato di formulare altri capi d’accusa se l’eretica ne avesse dato appiglio. L’adesione di Lapina al movimento del «libero spirito» non fu cosa superficiale e fugace, visti e la qualità dell’errore contestatole e il tempo trascorso nell’eresia: ben otto anni, dunque dal 1319. Filippo, suo figlio, era frate domenicano dal 1318. Nel processo di degradazione dell’ufficio inquisitoriale fiorentino - dove “eresia” diviene pretesto per estorcere fiorini - avviato dallo stesso fra Accorsio Bonfantini da Firenze e consumato nei decenni ’30-’40 dagli inquisitorí fra Mino da San Quirico e fra Pietro dall’Aquila, a loro volta inquisiti e condannati dalla sede apostolica per malversazioni e concussioni, il caso Lapina è pressoché l’unico - se ignoriamo Spirituali e Fraticelli - a documentare reali conflittualità e divaricazioni di tradizioni spirituali; e a offrire inoltre contenuti di qualche valore per la storia della dissidenza dottrinale nella Firenze di quegli anni.
Resterebbe da indagare più sistematicamente nell’ambiente della spiritualità laica della Firenze del Trecento per individuare la consistenza della penetrazione della corrente del libero spirito e i tramiti della sua diffusione. Lapina fu un caso isolato? Umbria e Toscana furono le regioni in cui più attecchirono i movimenti di dissidenza religiosa del Trecento. Certamente questo è il caso degli Spirituali (domenicani non esclusi: Alla ricerca di Ubaldo da Lucca, «Archivum Fratrum Praedicatorum» 64 (1994) 19-74) e dei Fraticelli. Un spoglio dei fondi notarili del primo Trecento fiorentino dà sorprendenti risultati; molte le persone, specie di sesso femminile, coinvolte in interventi inquisitoriali; frequenti i riallacci parentali col mondo religiosio. Ma se la documentazione di atti inquisitoriali di questo periodo è notevole, grazie soprattutto alla sopravvivenza dei registri contabili dell’ufficio dell’inquisitore, non altrettanto è quella relativa allo specifico capo d’accusa e dunque all’eresia di volta in volta perseguita.
Un esempio. «Decca vedova del fu messer Catello» implicata in atti inquisitoriali, «propter crimen heresis per ipsam dominam Deccham commissum» (Arch. Segr. Vat., Collectorie 250, f. 98r: 15.XII.1327; f. 98v: 17.XII.1327), senza specificare contenuto della dissidenza. Chi è costei? Testimonianze notarili permettono di ritessere fili insospettati. Decca, o Aldobrandesca, è figlia di messer Morando dei Morandi, vedova di messer Catello dei Gianfigliazzi, dimorante nel popolo SMN (Arch. di Stato di Firenze, Notar. antecos. 3140 (già B 2126), f. 12r: 1.II.1300/1; 3143 (già B 2129), f. 46r-v: 19.I.1320/1). Sorella di Decca è Bruna, donna dell’Ordine della Penitenza di San Domenico, vedova di Simone di messer Biliotto dei Donati. Tre i figli Bruna: Vanni, Iacopo († 1348) e Biliotto († 1324); gli ultimi due sono frati di SMN (Arch. di Stato di Firenze, Dipl. S. Maria Novella 24.XII.1295; 28.VIII.1300; 1.IV.1308). Marito di Decca è messer Catello di Rosso di Adimari dei Gianfigliazzi († 1298-1301), consorteria guelfa dichiarata magnate nel 1293 e proscritta dalle cariche pubbliche, a fianco dei guelfi neri di messer Corso dei Donati nelle lotte tra bianchi e neri d’inìzio Trecento, titolare d’una compagnia prevalentemente creditizia dai vasti interessi, attiva soprattutto in Francia. A messer Catello, tra gli usurai del terzo girone del settimo cerchio, sembra mirare Dante in Inf. XVII, 58-60. Conosciamo due figli di messer Catello, Dionisio notaio e Giovanni; quest’ultimo frate Minore di Santa Croce, novizio in febbraio 1303 (Arch. di Stato di Firenze, Notar. antecos. 3140, f. 9r: 12.I.1300/1; f. 12r: 1.II.1300/1; f. 86v: 27.X1.1302; f. 95r: 20.II.1302/3). Costanza di Vanni (o Giovanni) di Cafagio di Adimarí dei Gianfigliazzi è monaca del monastero domenicano San Iacopo a Ripoli; Tancia dei Gianfiglíazzi monaca dell’altro monastero domenicano San Domenico a Cafaggio (Notar. antecos. 3141, f. 31r-v: 27.XII.1306; Dipl. S. Domenico del Maglio 20.IV.1319).
Decca, condannata per eresia dall’inquisitore di Santa Croce (poco prima di dicembre 1327, tempi pressoché coincidenti col caso Lapina), era madre d’un frate di Santa Croce e zia di due di SMN.
Esaurito il ciclo cataro (e bisognerà guardarsi dal generico patarenus nel lessico del Trecento inoltrato, che poteva valere un generico “eretico”) e individuate le dissidenze di matrice fraticelliana, il caso Lapina ha tutte le carte per suggerire piste e dar nome ad esperienze spirituali alternative in ambienti affini, laddove le fonti uffficiali tacessero gli specifici contenuti della devianza ereticale. Certamente la corrente sottile e alliciente del libero spirito, refrattaria per natura a costringere il proprio corso in setta organizzata, beneficiò d’una penetrazione fluida, a corsa sotterranea e trasversale, capace di sedurre anche ambienti che l’ombra degli Ordini Mendicanti - dalla spiritualità rigorosamente ortodossa - presumeva di serbare indenni dal contagio. «Carte domine Lapine matris fratris Philippi Lapi modicum utiles», dice la nota a tergo del diploma 31 ottobre 1327 (Doc. I). Non utile a testimoniare a favore dell’avente diritto? In tal senso non utile al convento fiorentino SMN, che non compare in nessuno dei tre atti; eppure l’archivio conventuale custodiva decine di pergamene che non implicavano il convento tra i soggetti della transazione. Utilissima era a Lapina, e in subordine a fra Filippo, cui garantiva legittimo recupero della casa rimovendo in radice l’ipoteca di condanna per eresia. Perché allora «modicum utiles»? Non tradisce, il buon frate che ha vergato la nota, un mal dissimulato fastidio per una vicenda ereticale che raggiungeva, sia pur trasversalmente, un membro del proprio convento?
ASF, Dipl. S. Maria Novella 31.X.1327 (Doc. I); 19.XI.1327 (Doc. II); 15.VI.1328 (Doc. III). Arch. Segr. Vat., Collectorie 250 (registro d’entrate-uscite dell’inquisitore fra Accorsio OFM), f. 98r.
F. Tocco, Due documenti intorno ai Beghini d’Italia, «Archivio storico italiano» serie V, t. 1 (1888) 417-23; Id., Studii francescani, Napoli 1909, 336-38. R. Davidsohn, Un libro di entrate e spese dell’inquisitore fiorentino (1322-1329), «Archivio storico italiano» serie V, t. 27 (1901) 346-55. G. Biscaro, Inquisitori ed eretici a Firenze (1319-1334), «Studi medievali» 3 (1930) 279-80. L. Oliger, De secta spiritus libertatis in Umbria saec. XIV, Roma 1943, 80-81. C. Piana, La facoltà teologica dell'università di Firenze nel Quattro e Cinquecento, Grottaferrata 1977, 74-76, 506a. L. Thier - A. Calufetti, Il libro della beata Angela da Foligno, Grottaferrata 1985, 93-94. E. Panella, Lapina da Firenze, eretica del Libero Spirito, madre di fr. Filippo di Lapo OP, «Archivum Franciscanum Historicum» 79 (1986) 153-78.