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4. Le glosse

Ignoriamo la mano quattrocentesca che tra f. 119r e f. 161r ricopia in calce a beneficio personale i titoli dei capitoli. Tra f. 8v e f. 102v invece, la medesima mano A al lavoro di copia del testo principale in colonna, annota nei margine delle carte, in forma molto contratta, le auctoritates relative al testo o altri complementi di natura documentaria. Consuetudine corrente nei libri medievali, a metà strada tra notabilia e glosse (userò per comodità quest'ultimo termine per designare tali note marginali). E non meriterebbero, le nostre glosse, eccessiva attenzione se fin dal loro primo apparire non mostrassero in molti casi due congiunte caratteristiche: a) sono vergate dallo stesso copista del testo; b) non si limitano, come d'abitudine, a richiamare in margine gli autori citati nel testo, ma contengono indicazione di fonti ed autorità, servite sì a costruire il testo ma non entrate nella redazione del testo stesso. Contengono e trasmettono, in altre parole, qualcosa di più del testo trascritto in colonna; con questo intimamente connesse, e tali anzi da svelarlo allo stadio della sua genesi. Una vera contro-documentazione in negativo. Contro la quale si dà che fonti esplicite, dichiarate cioè e nominalmente citate, rientrino nella penombra di letture indirette; mentre fonti dirette usate per costruire il testo, e da questo taciute, s'illuminino fuori testo, al margine delle carte. Illustriamo il punto.

III, 1 (assignantur cause quare premittitur productio lucis in distinctione dierum), f. 20r-v, ed. 33-34. Il corpo del capitolo riferisce quattro ragioni dai dottori sacri Agostino, Basilio, Crisostomo, Ambrogio. In margine a f. 20r: «th'. in S.» (quest'ultima lettera barrata trasversalmente), vale a dire «Thomas in Summa», che non compare nel testo. Il capitolo è difatti costruito, documentazione inclusa, su Summa theologiae I, 67, 4 di Tommaso d'Aquino. Annotiamo per transenna che nelle glosse si alternano i compendi th'. e tho.

VI, 6 (de ordine planetarum), ff. 56r-57r, ed. 82-83. Contro le autorità esplicite del testo, ben cinque glosse marginali integrano il dossier documentario: «De hac Ptolom. in I dictione et Alph'. diff. V et Theb'. de VIII spera» a sostegno della necessità di porre una nona sfera con moto diurno di 24 ore in direzione Est-Ovest; «th'. in S.» tre volte; «Basilius, Strabus et Beda» che svela gl'innominati «doctores sacri» del testo. I tre rinvii tomasiani tuttavia, miranti a Summa theologiae I, 66, 3, indicano la fonte diretta, e taciuta nel testo, di tutto il materiale sul cielo empireo, divenuto ora decima sfera immobile; e rendono simultaneamente ragione non solo delle tre autorità relegate allo spazio marginale, Basilio Strabone e Beda, ma anche di quanto Agostino riferisce su Porfirio il platonico.

La sesta glossa in ed. 82 marg. sinistro, «Idest probabilis», è commento aggiunto dall'edizione. Cautela dunque nell'uso della stampa ottocentesca per lo studio del valore delle nostre glosse.

IX, 5 (utrum ista ymago se extendat ad mulierem et ad omnes homines), ff. 78r-79v, ed. 111-13. I margini sono colmi di rinvii a luoghi tomasiani, dai quali di fatto il frate lucchese attinge abbondantemente, sebbene restino coperti dal silenzio del testo.

Quanto segnalato per Tommaso, vale parimenti per altre fonti tolomeiane: Aristotele, Agostino, Avicenna, Averroè, Alberto Magno ecc. Talvolta le glosse perfezionano o completano la citazione. Così, ad esempio, là dove sul tracciato agostiniano del De Genesi ad litteram V, 7-10 si discute dell'unica fonte originaria delle acque terrestri, Tolomeo inserisce una precisazione dovuta a Giovanni Damasceno: «Secundo modo sic idem doctor exponit ut accipiatur fons pro ea parte elementi que inferius terre coniungitur, quam Damascenus occeanum vocat» (XI, 5: f. 94ra, ed. 133). Al margine la glossa precisa: «hoc in II° li. ca. 23». Perfetta integrazione documentaria del rimando al De fide orthodoxa, più comunemente detta Sententiae dai lettori latini e suddivisa, da inizio Duecento, in quattro libri su traduzione (1153-54) di Burgundione da Pisa.

De fide orthodoxa, Versions of Burgundio and Cerbanus, by E.M. Buytaert, St. Bonaventure-New York 1955, 100: «Est igitur oceanus…»: corrispondente al libro II della suddivisione latina e a c. 23 della numerazione continua in 100 capitoli della traduzione greco-latina di Burgundione. De operibus I, 3 cita teologi greci «quibus Damascenus in secundo suo libro consentit» (f. 12va-b) e a glossa marginale «c. xij», che trova riscontro in De fide orthodoxa libr. II e c. 17 della traduzione di Burgundione (ed. cit. p. 74 § 19).

Sufficiente per escludere l'attribuzione di siffatte glosse al lavoro personale dei copisti del nostro codice o di qualche altro lettore: perché le glosse non si limitano a estrarre in margine le autorità citate per intero nel testo (da questo usano comporre notabilia i lettori o copisti diligenti) ma contengono informazioni eccedenti i dati del testo in colonna; esigono familiarità con la letteratura di base servita all'autore; talvolta fonte unica a prestare al testo le autorità dichiarate, e declassate pertanto a letture di seconda mano. Un lavoro non più di corredo alla lettura del trattato, ma scavo laborioso alla ricerca del taciuto. Chi avrebbe intrapreso tale improbo lavoro per consegnarne il frutto a rapide compendiatissime annotazioni marginali? E a beneficio di chi?

In XII, 7 (in qua etate creatus sit homo) a lato delle autorità canonistiche sull'età minima legale per gli ordini sacri («statuunt nullum clericum posse promoveri ad sacerdotium ante XXX annos…, quamvis iure novo tolleretur annus XXVus, ut Extra, De electione, c. Cum in cunctis. Sed in episcopo XXXus annus est necessarius quia gerit typum Christi, qui in eadem etate assumpsit predicationis offitium»: f. 102rb-va, ed. 144) la glossa marginale informa: «hoc in ystoria quadripartita» (f. 102va). Solo l'autore fr. Tolomeo poteva sapere e rinviare a questa sua opera, tenuta a lungo in cantiere e probabilmente mai portata a termine, come si vedrà più oltre.

E soffermiamoci su un abracadabra. Ché tale suona al lettore, antico e moderno, che non avesse a lungo inseguito il filo tortuoso di queste glosse alla ricerca della biblioteca palese ed occulta di Tolomeo. Il cielo sidereo è veramente l'ottava e ultima sfera dell'universo, come vuole Aristotele? e le orbite planetarie son tutte omocentriche alla terra?

VI, 5 (de motu firmamenti et planetarum et numero orbium ponitur oppinio Aristotilis et reprobatur, postea ponitur opinio Ptolomei que est vera et que tenetur ab astrologis modernis): Sed istam positionem astrologi reprehendunt, ut Ptolomeus et Alphagranus imitator eius, quantum ad tria. Primo quantum ad ultimam speram, quam non dicunt esse celum stellatum sed speram IX, cuius motu diurno et uniformi, hoc est horis XXIIIIor ab oriente in occidentem, moveri dicunt octavam speram et septem planetas; ceteris autem 8 speris motum proprium ab occidente in orientem describunt. Et hoc a Ptolomeo traditur in VII dictione Almagesti et Alphagrano differentia XIII scribitur, confirmatum quidem per antiquorum probationes. Secundum autem quod improbant predicti astrologi est de firmitate stellarum; quia stellas in octava spera, quamvis equali motu, dicunt moveri, et hoc asserunt esse probatum ab ipsorum antiquis, uno gradu videlicet in centum annis, ut patet per dictum Ptolomeum I et VII dictione, per Alfagranum autem II et XIII differentia (f. 55ra-va, ed. 80-81). [Terzo, sui moti dei pianeti; con conclusione:] Sed ex hoc coacti sunt ponere excentricos et epyciclos ac orbium scissiones in quibus planete moventur, ut sensibiliter nobis apparet ex eorum aspectu quando elevantur in auge vel descendunt ad oppositum augis (f. 56ra, ed. 81).

A differenza del suo maestro Tommaso, che quando non resta neutrale sembra preferire il filosofo Aristotele (cf. Th. Litt, Les corps célestes dans l'univers de saint Thomas d'Aquin, Louvain-Paris 1963, 342-65), Tolomeo prende esplicita posizione a favore della teoria eterocentrica (eccentrici ed epicicli) di Claudio Tolomeo e continuatori arabi per spiegare i moti irregolari d'alcuni pianeti, contro quella omocentrica di Eudosso-Aristotele. Le preferenze erano già state preannunciate: «Mirandum autem valde de tanto Philosopho quod cum ipse perquirens de natura celesti in suo libro De celo et in sue doctrine processu sepius ibidem recurrat ad sensum seu sensitivam congnitionem, quomodo per ipsam non vidit multa que ipse negare videtur in libro prefato. In quo circa motus celestes multum videtur errasse et precipue circa elevationem planete in suo orbe per motum eius in epyciclo; ubi manifeste per sensum videmus ipsum velociter et tarde moveri, et maxime hoc apparet in Marthe. Velocitur autem moveri dicitur quando est directus quia tunc movetur eodem motu sive ad eamdem partem cum suo circulo deferente, tarde autem movetur quando est retrogradus quia tunc movetur contrario motu. Unde tarditas et velocitas non eidem contingit ratione sui sed per comparationem ad suum orbem contra quem movetur in epyciclo» (IV, 7: f. 35rb-vb, ed. 54). Illustrazione di quanto qui dice il nostro Tolomeo: Th. S. Kuhn, La rivoluzione copernicana, Torino 1972, 78-79.

Al margine di f. 55rb, pressappoco a lato delle parole «et hoc asserunt esse probatum ab ipsorum antiquis», il medesimo copista scrive: «hoc est abrachis et cymacaridis». Chi sono costoro?

In precedenza, discutendo la possibilità fisica delle acque al di sopra del firmamento (IV, 4 ss: ff. 33ra ss, ed. 51 ss), fr. Tolomeo aveva accennato per transenna al problema della nona sfera e del movimento della sfera stellare (l'ottava) di un grado ogni 100 anni, e rinviato a quanto avrebbe detto a suo luogo: «Advertendum etiam hic quod per hoc quod ponitur corpus aqueum super firmamentum preter celum primo productum, reprehenditur positio Aristotilis de numero celorum quam scribit in II De celo [De caelo II, 12, 291b 25 ss]. Posuit enim ibidem celum sydereum esse ultimam speram supra quam non est aliud corpus. Sed hoc astrologi reprobant, ut infra dicetur in opere quarte diei» (IV, 6: f. 35rb, ed. 54). A margine, glossa della stessa mano: «hoc thebit in 8. spera». Poco dopo, a scusante di Aristotele: «qui quidem motus <scil. octave spere> adhuc non clare patebat astrologis contemporaneis Aristotilis. Primi enim qui hoc perceperunt et scripserunt posteris fuerunt Abrachis et Felix, ut Ptolomeus refert, a quibus et ipse habuit, et hii fuerunt post Alexandrum Magnum. Dictus vero Ptolomeus fuit post Christum circa tempora Adriani imperatoris» (f. 36ra, ed. 54-55). Glossa marginale: «hoc in VII dictione Almages. et Alpha. diff. XIII».

Nessun Abrachis o Cymacaridis o Felix nel capitolo ovvero differentia XIII (moti del sole, luna e stelle fisse) del trattato astronomico di Alfragano (al-Farghânî † 863 ca.); in nessuna delle due traduzione medievali. Abrachis e Felix li si ritrovano invece nelle traduzioni arabo-latine dell'altro grande astronomo Thâbit ibn Qurra († 901); dove si apprende che Abrachis altri non è che l'astronomo Ipparco da Nicea (fl. 150 a. C.) secondo l'esito delle traslitterazioni greco-arabo-latine finite nel De motu octave spere: ’´IpparcoV > Abarkhis > Abrachis.

Thâbit ibn Qurra, Oeuvres d'astronomie, texte établi et traduit par R. Morelon, Paris 1987, 28 e 310 (s. v. Hipparque). De motu octave spere, ed. A.J. Carmody, The astronomical works of Thabit b. Qurra, Berkeley 1960, 104 § 18-19; De anno solis, ed. cit. 64-65, 73-75. Sotto forma latina Hipparchus, lo si poteva conoscere per il tramite della Naturalis historia lib. II di Plinio († 79 d. C.), delle traduzioni greco-latine delle opere di Giovanni Filopono e di Simplicio.

Ma se Abrachis-Ipparco è difatti invocato da Thâbit a sostegno del moto della sfera siderea, Felix al contrario è poco più che un fantasma, materializzatosi lungo i passaggi antroponimici arabo-latini: Felix, Fadix, Sadix (arabo Sâdiq?); e ancora Albuzabez Benfelix (ben Felix), Alburabeth Benfeliz. Senz'alcuna apparente attinenza alla tesi in questione, a giudicare dai testi disponibili (Carmody, The astronomical works  169, 171, 182 § 14, 249). La peregrinazione a ritroso sulle letture astronomiche del nostro frate lucchese approda alla traduzione arabo-latina dell'opera del massimo astronomo Claudio Tolomeo (100-178 d. C.), l'Almagestum. Qui non compare Felix, compaiono in compenso gli altri due signori. Esattamente nella dizione VII cc. 2-3 sul moto della sfera stellare, dove Tolomeo chiama congiuntamente in causa i due predecessori che gli hanno spianato la strada: Abrachis e Timocharides. Rispettivamente ’´IpparcoV e TimocάridoV dell'originale greco.

Claudii Ptolomei Almagestum, tr. arabo-latina (1175) di Gerardo da Cremona: VII, 2 (de hoc quod sphere stellarum fixarum inest motus ad partem successionis signorum); VII, 3 (de hoc quod motus stellarum fixarum ad successionem signorum non est nisi super duos polos orbis medii signorum); ed. Venetiis 1515, ff. 74r-77r. «Timocharidis» quando declinato al genitivo. La stessa tesi astronomica anche in I, 8 (quod primi motus qui sunt in celo sunt duo; ed. cit. ff. 4v-5r), ma le nostre due autorità non vi vengono nominate.

Cl. Ptolemaei Opera, Syntaxis mathematica, ed. J.L. Heiberg, Lipsiae 1898-1903, II, 12 ss.

Soltanto chi avesse fatto conoscenza con Abrachis, Felix e Timocharides (scivolato a Cymacaridis) in letture previe alla stesura del testo, poteva rilanciarne i nomi tra testo e note marginali. In palese ridondanza dimostrativa rispetto all'economia della pagina del De operibus sex dierum; ché risultava digià onorevole aver scavalcato il modesto manuale di Giovanni da Sacrobosco (inizio XIII sec.) per affidarsi ad astronomi quali Tolomeo, Alfragano e Thâbit ibn Qurra; mentre l'esibizione dei soli nomi Abrachis e Cymacaridis nulla aggiunge a quanto Claudio Tolomeo e Thâbit fanno dir loro o asseriscono in proprio. Più compiaciuto, il nostro fr. Tolomeo, nell'esibire esotiche conoscenze anziché apprestare pertinente risolutoria documentazione? Introduce nel testo in un primo momento la coppia «Abrachis et Felix» (f. 36ra); successivamente muta, e corregge, in «Abrachis et Cymacaridis» (f. 55rb in marg.). O chi altri mai, dei lettori del De operibus, avrebbe ripercorso le stesse letture per estrarvi, nudi e impervi, i nomi di Abrachis e Cymacaridis? eccedenti la concisione del testo in questione, irrilevanti alla tenuta argomentativa d'una tesi più enunciata che dibattuta.

E in connessione con gli autori qui rammentati, approfittiamo per segnalare che del trattato astronomico d'Alfragano il nostro Tolomeo utilizza la traduzione arabo-latina (1135) di Giovanni di Spagna, Liber scientie astrorum et radicibus motuum celestium, o semplicemente Differentie dal nome delle 30 partizioni; non la più recente di Gerardo da Cremona († 1187). Un frammento di citazione letterale permette di decidere:

De operibus sex dierum

tr. arabo-latina Giovanni di Spagna

tr. arabo-latina di Gerardo da Cremona

VI, 8 (quomodo sol et luna dicantur luminaria maiora): «Sed quantum ad veritatem, ordo magnitudinis planetarum et stellarum fixarum secundum traditionem Alfagrani, differentia XXII in fine, sic accipitur. Scribit enim inprimis quod maior omnibus corporibus est sol, post illum (illud cod.) XV stelle que in prima magnitudine inter stellas fixas ponuntur ab ipso, tertio Iupiter, quarto Saturnus, quinto autem omnes stelle fixe suis ordinibus posite, quas idem Ptolomeus in VII dictione Almagesti et Alfagranus differentia XIX in sex gradus magnitudinis dividunt; sexto loco Mars ponitur, septimo terra, octavo Venus, nono luna, decimo Mercurius» (f. 58rb, ed. 84).

Liber scientie astrorum et radicibus motuum celestium, differentia XXII § ultimo: «Iamque igitur patuit quod maior omnibus corporibus mundi sit sol, et post illum 15 stelle maxime fixe, tertius in magnitudine iupiter, 4s saturnus et 5e omnes stelle fixe in suis ordinibus posite et 6s mars et 7a terra et 8a venus et 9a luna et 10s mercurius» (ed. F.J. Carmody, Berkeley 1943, 40).

De aggregationibus scientie stellarum c. 22: «Iam igitur manifestum est quod maius corporum quae sunt in mundo est sol, et secundo stellae 15 fixae maiores, et tertio Juppiter, et quarto Saturnus, et quinto reliquae stellae fixae omnes secundum ordines suos, et sexto Mars, et septimo terra, et 8° Venus et 9° luna et 10° Mercurius»  (Alfragano, Il Libro dell'aggregazione delle stelle, ed. R. Campani, Città di Castello 1910, 150).

Non è da credere comunque che le glosse traggano alla luce, contro il testo, sempre e tutte le fonti dirette del nostro autore. Perché anche fr. Tolomeo, secondo le convenzioni del tempo, rifugge dal nominare i più modesti ma onnipresenti manuali di scuola. Rimaniamo nel settore dell'astronomia, su cui il frate lucchese vanta conoscenze e letture di tutto rispetto. Là dove parla dei climi (sette suddivisioni della fascia abitabile della terra) e riferisce di chi ripone il «locus orientis» del paradiso terrestre nel primo clima (tra 12° e 20° latitudine nord, in Alfragano), s'imbatte col topos della locazione astronomica e climatologica dell'Etiopia; dal clima intemperato, prossima com'è al circolo equinoziale, e pertanto inidonea ad ospitare il paradiso terrestre (XIV, 2: f. 142vb, ed. 199). Tra le autorità: «sicut astrologi volunt et preclarus doctor dominus Albertus refert in libro De natura locorum, et Lucanus poeta: Ethiopumque solum quod non premeretur ab ulla | signiferi regione poli nisi poplite lapso», senz'altra specificazione bibliografica; per dire che l'Etiopia rimane fuori del circolo zodiacale, appena lambita dallo zoccolo del Toro a garretto flesso. Tolomeo è andato a rileggersi Pharsalia III, 253-55 di Marco Anneo Lucano? No, ha prelevato i versi dal diffuso manuale astronomico del tempo, De sphera (1233 ca.) di Giovanni da Sacrobosco (Holywood), che li serve alla stessa maniera. E più ancora ha tacitamente prelevato dal manuale l'interpretazione correttiva che con i versi fa corpo: l'Etiopia anziché al di qua del tropico del Cancro va più ragionevolmente situata sotto l'equatore.

Alberto Magno, De natura locorum I, 6: Opera omnia, ed. Au. Borgnet, IX (1890) 539-40. Non è Alberto a prestare i versi di Lucano, Pharsalia III, 253-55, al nostro Tolomeo. L'unica citazione di Lucano, Pharsalia III, 247 «Ignotum vobis Arabes venistis in orbem», Alberto la fa più oltre (I, 7: ed. cit. 544b); ed anch'egli preleva testo e commento da Giovanni da Holywood, De sphera c. 3, ed. L. Thorndike, The Sphere of Sacrobosco, Chicago 1949, 106.

De sphera c. 3, ed. L. Thorndike, Chicago 1949, 107. «Dicunt enim quod ibi sumitur signum equivoce… Unde Taurus cum sit in zodiaco secundum maiorem sui partem, tamen extendit pedem suum ultra tropicum Cancri et ita premit Ethiopiam, licet nulla pars zodiaci premat eam… Sed cum philosophica ratio huic contrarietur,… dicendum quod illa pars Ethiopie de qua loquitur Lucanus est sub equinoctiali circulo, et quod pes Tauri de quo loquitur extenditur versus equinoctialem».

I versi poi li cita a mente, se omette l'ultimo dei tre esametri («ultima curvati procederet ungula Tauri»), indispensabile per intender grammatica e senso della citazione. Ma non usa così per le autorità più familiari, mandate a memoria fin dai banchi di scuola? Si dà un solo versetto del salmo, benché s'intenda anche quel che segue. L'autorità continua a citarsi nella memoria. Tutti lo sanno, autore e lettore.

Informazioni attinte dalla propria memoria (serbatoio immenso per un medievale). E ricorsi di autorità che portano agglutinata un piccola somma di convenzioni di scuola, dove confluiscono apporti di natura e provenienza disparate, dal testo autorevolmente letto a scuola, all'interpretazione corrente di maestri e commentatori, alla formule stereotipe dell'adagio (anch'esso a servizio del patrimonio orale del sapere). L'ostinato intento dell'editore moderno di voler tutto ritrovare nell'autorità dichiarata, e con le medesime parole, pena l'imputazione di fraudolenza letteraria, non rende ragione d'una peculiare radicatissima tecnica d'apprendimento e di trasmissione del sapere. De operibus sex dierum III, 7: «Restat de tertia parte videre, qualiter videlicet distinguatur eius <scil. lucis> actio et eius effectus in comparatione ad corpus cui coniungitur. Ad quod ostendendum due rationes adduci possunt. Una sumitur ex Libro de causis que attenditur penes subiectum in quo virtus recipitur, sive causam universalem que est talis; quia omne quod recipitur in aliquo, est in eo per modum recipientis non per modum recepti» (f. 26ra-b, ed. 41). Glossa marginale: «hoc in multis locis sed precipue habetur in pa propositione» (f. 26ra). La delusione del riscontro con Liber de causis proposizione I non getta discredito sulla qualità, e di rimbalzo sulla paternità della glossa? Tutt'altro, se partiamo  -  come pure è doveroso  -  con quanto è testualmente ancorato; con l'adagio «Omne quod recipitur» ecc. Intorno ad esso, mentalmente passato alla penna, il resto del brano si è venuto costruendo; incluso l'indeterminato richiamo «ex Libro de causis». A cose fatte l'autore è andato in cerca del textus a sostegno dell'autorità e l'ha consegnato alla documentazione marginale. Non senza qualche imbarazzo: «hoc in multis locis…», che vale una parziale resa a individuare con certezza la fonte esatta. Perché all'elaborazione della dottrina della prima ragione apportata da Tolomeo, e dell'adagio che la veicola, hanno concorso testi e autori diversi. Anche il Liber de causis propos. I e più ancora propos. XII: «Primorum omnium quaedam sunt in quibusdam per modum quo licet ut sit unum eorum in alio» (Liber de causis propos. XII: ed. A. Pattin, «Tijdschrift voor Filosofie» 28 (1966) 161); che la didattica di scuola aveva riversato nel più comprensibile adagio «Quicquid recipitur, ad modum recipientis recipitur», o simili (J. Hamesse, Les auctoritates Aristotelis, Louvain-Paris 1974, 232 § 12; note sull'adagio raccolte da R.-A. Gauthier, S. Thomae de Aquino Opera omnia XLV/1 (1984) 115n; commento di Tommaso d'Aquino alle proposizioni I e XII del Liber de causis: ed. H.D. Saffrey, Fribourg 1954, 4-10, 77-81). Sentenze ed aforismi trasferiscono la proprietà letteraria a patrimonio di tutti; dopo aver mutato fisiologia al testo e connotati all'autore.

Concludiamo. Le glosse che costellano il De operibus sex dierum nel nostro codice Casanatense sono autentiche, risalgono cioè all'autore fr. Tolomeo dei Fiadoni da Lucca. Contengono spesso e trasmettono indicazione di fonti non dichiarate, impiegate però dall'autore nel redigere il testo, con questo perfettamente consonanti. Talvolta rilasciano notizie in possesso del solo autore. C'è da credere che Tolomeo avesse corredato l'intero trattato di siffatte annotazioni marginali. Lavoro di messa a punto e d'integrazione documentaria che a rigore poteva protrarsi  -  non sarà inutile tenerlo presente  -  anche oltre i limiti cronologici di composizione del trattato stesso. Il codice Casanatense fotografa una fase intermedia della sorte che la tradizione manoscritta solitamente riserva alle glosse, o in genere ai complememti marginali dei libri manoscritti (spazi destinati più alle reazioni del lettore o del copista-correttore che alla parola dell'autore). Le glosse si leggono, abbiamo detto, soltanto entro ff. 8v-102v. Va dato per scontato che l'antigrafo servito ai copisti del nostro codice ne fosse provvisto soltanto in questa prima sezione dell'opera? Ricordiamo che le carte glossate cadono nella sezione trascritta dal primo copista. E sebbene il lavoro di costui si protragga alquanto oltre l'ultima glossa prima di cedere la mano al copista B (f. 110v), vien da credere che presenza/assenza delle glosse, adeguatamente decisa sul discrimine fisico delle due mani al lavoro di copia, rifletta differente comportamento dei copisti di fronte alle note marginali. Il primo, in altre parole, le trascrive; il secondo le lascia cadere (non s'avvede che fanno corpo col testo?).

A meno che non si preferisca un'altra spiegazione: che l'antigrafo portasse le glosse soltanto nella prima metà del trattato; che i due copisti convenissero di spartirsi la quota di lavoro proprio là dove cessavano le glosse. Un'alternativa che moltiplica le varianti fortuite della spiegazione.

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