Per cod. G4 (sermoni de tempore et de diversis materiis) Ovidio Capitani aveva a suo tempo avanzato l’ipotesi che si trattasse di «un manoscritto che dipende da un testo di appunti e schemi tracciati in fretta dallo stesso Remigio...» («Bull. Istit. Stor. Ital. per il M.E.» 1960, 106), mentre per la genesi di cod. C (opere trattatistiche) il Capitani ha proposto una diversa ipotesi («Studi Medievali» 1965, 550), che il Tamburini così espone:
Circa la data di composizione dei trattati, il Capitani offre una suggestiva ipotesi. In un primo tempo, cioè tra il 1270 ed il 1314, i trattati sarebbero stati composti dall’autore e scritti singolarmente in codici diversi. Successivamente i singoli trattati furono ricopiati e raccolti insieme in un unico ms., il C 4.940, mentre i codici contenenti i singoli trattati furono venduti per sostenere le spese di costruzione in Firenze d’una casa con annessa la scuola, come scrive fra Remigio nel sermone V ai priori della città, che viene datato appunto tra il 1318-1319. Unico testimone sopravvissuto dei codici contenenti i singoli trattati sarebbe il ms. E 7.938 della BNF, Conv. soppr., scritto da mano diversa da A e che contiene il De modis rerum, trascritto anche nel ms. C 4.940.
Secondo questa ipotesi, certamente assai verosimile e ben fondata, il ms. C 4.940 dovette essere composto per l’uso dei frati di SMN e in un periodo di tempo piuttosto breve, dovendo sostituire, riuniti in un solo volume, gli scritti di fra Remigio sparsi in parecchi codici diversi, che dovevano essere venduti (Introduz. p. XXXI; cf. ib. p. 189 n. 25-27).
Lasciando da parte il problema cronologico della composizione delle opere raccolte nella silloge di cod. C (cf. Un’introduzione, MD 1981, 38-66), l’ipotesi
a) suppone che i singoli trattati fossero contenuti in codici indipendenti, scritti e confezionati per poter essere immessi nel mercato librario (editio);
b) suppone che tra i libri venduti in occasione della costruzione della domus e scuola ci fossero anche codici contenenti scritti di Remigio;
c) e suppone infine che le opere di Remigio fossero di quelle assorbibili dal mercato librario della Firenze del tempo.
Ora in che stato fossero i testi remigiani da cui copiavano i copisti di cod. C (se già rifiniti e approntati per il pubblico o semplicemente in carte o quaderni a uso dell’autore) è proprio il punto che va stabilito; e lo si può fare solo recensendo sistematicamente gl’incidenti di copia di cod. C. Prima d’ipotizzare che tali codici fossero stati venduti, bisogna accertare se siano mai esistiti!
Il testo del sermone Precurre prior (mezzo dicembre 1318, mezzo febbraio 1319: Studio 232) dice: «Unde ego considerans nostrum et etiam comunis bonum et necessitatem, incoavi quandam domum in porta et hucusque perduxi cum venditione librorum nostrorum, super qua adhuc sum» (cod. G4, f. 355v, mg. s.). Il «librorum nostrorum» non costringe a intendere il plurale maiestatico, quando poco prima si era detto «ego... incoavi... perduxi»; e anche altrove Remigio usa d’abitudine il singolare quando parla in prima persona. Il «librorum nostrorum», vista l’istituzione religiosa in cui inserito il ‘frate’ Remigio, ha la sua migliore interpretazione in «libri nostri» cioè «del nostro convento». (L’interpretazione che Remigio vendesse «i suoi libri» risale a FINESCHI, Memorie istoriche che possono servire alle vite degli uomini illustri del convento di S. Maria Novella..., Firenze 1790 178).
Il costo del libro medievale, a confronto con quello d’altri beni di mercato, era estremamente alto a motivo della pergamena, della confezione e soprattutto del lavoro di copia (cf. C. BOZZOLO - E. ORNATO, Pour une histoire du livre manuscrit au moyen âge, Paris 1980, cc. II-III, pp. 19-52). Nell’Europa latina del XIII e XIV secolo il mercato librario di opere scolastiche era legato principalmente ai centri universitari e ai libri textus: Bibbia, Decreto, Decretali, libri del Corpus iuris civilis e relative Glosse, libri di testo delle diverse facoltà universitarie e commenti dei magistri... (cf. BOZZOLO-ORNATO passim; G. FINK-ERRERA, Une institution du monde médiéval: la pecia, «Revue philosophique de Louvain» 60 (1962) 187-210; ricordo che nei codici remigiani non esistono tracce di trascrizione a ‘pecia’, caratteristica della produzione libraria universitaria); e tali sono i libri che appaiono - e raramente - negli atti notarili della Firenze del tempo (ASF, Notar. antecos.) in transazioni di prestito, pegno, vendita. Mi sembra altamente improbabile, vista la natura del mercato librario del tempo, che vi fossero in Firenze (non vi era ancora, ricordiamo, un’istituzione pubblica universitaria) lettori interessati ad acquistare codici contenenti opere di scuola o trattati omiletici d’un fra Remigio o di chiunque altro fosse. Il caso contrario va provato non supposto.
Si hanno casi di cessione di libri all’interno del convento SMN. Può servire, a scopo orientativo, qualche curiosità sui prezzi nella Firenze del tempo? Poco prima della morte di Remigio dei Girolami, 1319, fra Pietro d’Ubertino degli Strozzi - anch’egli di SMN - acquista da Remigio l’attuale codice BNF, Conv. soppr. A 3.1153, di 323 carte scritte a due colonne; lo paga 3 fiorini quando questo era scambiato con la moneta argentea al valore di lire 3 e soldi 5 (= 65 soldi) (cf. P. Künzle, Prolegomena a BERNARDO DA TRILIA, Quaestiones disputatae de cognitione animae separatae, Berna 1969, 23; POMARO, Censimento I, 344). I 3 fiorini erano pari, in quegli anni, a lire 9,75. Che cosa si comprava a Firenze con tale somma? Dispongo (ASF, Notar. antecos.) di taluni dati anteriori di qualche decennio, ma credo che siano a loro modo significativi. Un bue il 15.X.1294 era stimato lire 15, e il 3.VIII.1298 lire 15,25; una mucca il 3.IX.1295 era stimata lire 15,25 e il 7.IX.1302 lire 13; un’asina il 7.I.1300 era stimata lire 7; carissimo invece il cavallo (usato nelle guerre) che il 2.VIII.1302 è venduto per 58,5 fiorini, pari a lire 146,25; mentre il prezzo d’una pecora si aggirava a 1 lira (anno 1302).
Riassumendo la nostra questione: l’ipotesi Capitani, ripresa dal Tamburini, non risulta né «verosimile» né «ben fondata»: a) non è stato appurato se le opere di Remigio fossero contenute in codici approntati per la pubblicazione prima d’esser trascritte in cod. C; b) non esistono indizi per asserire che Remigio, per finanziare la costruzione della famosa domus, vendesse codici contenenti propri scritti; c) quel che si sa del mercato librario del tempo e di Firenze in particolare dissuade dall’ipotesi di principio, sollecita semmai la prova del fatto contrario.
Cod. G4 composto tra novembre 1314 e agosto 1315: «Da questa datazione ne deriva che il ms. G 4.936, oltre ad essere uno degli ultimi codici di fra Remigio ad esser stato composto, sarebbe anche posteriore al codice dei Trattati C 4.940, poiché vi sono dei precisi rimandi dal primo al secondo manoscritto» (Introduz. p. XXX; corsivo nostro).
Non sappiamo se cod. G4 sia anteriore o posteriore a cod. D, i cui termini di trascrizione sono il 25.V.1314 e il 29.VIII.1316 (se non addirittura il 29.VIII.1315); mentre cod. G4 è anteriore a cod. G3 (Dibattito, AFP 1980, 91-94). I rimandi da cod. G4 a cod. C sono di tale natura che non possono testimoniare priorità/posteriorità temporale della trascrizione dei due codici; si tratta o di rimandi ad opere contenute in cod. C (e allora è la composizione dell’opera non del codice che ottiene un termine ante quem) o di raccordi di consultazione che, come tali, prescindono dalla successione temporale della trascrizione dei codici; in altre parole si possono dare - e di fatto si danno - rimandi ad opere o sermoni indipendentemente se siano o no già trascritti nel relativo codice o sezione di codice (Un’introduzione, MD 1981, 33-34, 36-38, 62-65). Per il cod. C non è stato possibile finora produrre nessuna prova che fissasse i termini di composizione o che decidesse della priorità/posteriorità rispetto agli altri codici del periodo del riordinamento e trascrizione. Possiamo solo dire che, viste le forti analogie codicologiche (materiale, misure, scrittura), redazionali e di supervisione di mano B tra cod. C e codd. D, G3, G4, la trascrizione della silloge delle opere trattatistiche può essere presumibilmente rimessa al medesimo periodo (1314-16) di trascrizione degli altri tre codici.
Ch.T. Davis è dell’avviso che cod. C sia stato trascritto «at least slightly before Remigio’s other works» (Prefaz. p. X).
Motivi: a) «one wonders whether he [Remigiol could have found time in the brief period 1315-1319 also to rivise and collect his treatises» (Davis, in AA.VV., Le scuole degli ordini mendicanti, Todi 1978, 291);
b) il testo delle opere di cod. C sembra rivisto con più calma e accuratezza; le carte e i margini delle carte di tale codice sono meno tormentati, meno ingombri di correzioni e addizioni rispetto a quelli dei sermonari e dell’Extractio questionum di cod. G3 (ib.);
c) mentre gli altri codici portano numerosi rimandi a opere contenute in cod. C, questo porta un solo rimando (parte scritto da mano A, parte da mano B) ad altro codice, al sermonario cod. D (cod. C, f. 222rb) (ib. pp. 287-88).
Le annotazioni del Davis sono degne di considerazione e potrebbero rivelarsi utili per stabilire la priorità di cod. C rispetto agli altri codici quando potessero esser suffragate da decisivi dati critici. Allo stato attuale esse non sembrano decidere della questione. Remigio, avanti negli anni, cessò dall’insegnamento e dalla predicazione e si dedicò completamente («se totum conferens») a riordinare i propri scritti - dice la Cronica di SMN. Non si vede perché non avesse avuto modo di soprintendere anche alla trascrizione delle opere di cod. C. È vero che le carte di quest’ultimo sono generalmente meno tormentate (ma vedi pure talune tormentatissime pagine di Quolibet II); ma la cosa può trovare spiegazione nella natura diversa tra opere trattatistiche e sillogi di sermoni; questi costituiscono unità più minute, talvolta sono soltanto schemi o appunti di sermoni; l’autore vi ritorna con note al margine per offrire altri spunti o altre utilizzazioni al predicatore che se ne fosse servito; attività redazionale e glossatoria che non si confanno, almeno nella medesima misura, a composizioni organiche e ben strutturate quali trattati, questioni disputate e quodlibeti di cod. C. E la medesima considerazione (genere letterario diverso) può eccellentemente spiegare che siano i sermoni a rinviare a temi più sistematicamente sviluppati nei trattati e in opere di scuola, e non viceversa.
Si può identificare chi fosse (un frate? uno scriptor di SMN?) mano A che ha trascritto i codd. C (eccetto ff. lr-74r), D, G3, G4, pari all’84,5% delle opere di Remigio? Tamburini (Introduz. p. XXVII n. 13) suggerisce di confrontare la scrittura di mano A con le grafie che si succedono nella Cronica di SMN, di cui si conoscono alcuni nomi (per l’iscrizione del documento, divulgato con il titolo di ‘Necrologio’, vedi MD 1980, 11-13).
Il sottoscritto aveva già tentato la pista: mano A dei codici remigiani mai compare tra le grafie del codice della Cronica (Arch. del convento Santa Maria Novella di Firenze I.A.1). POMARO, Censimento I, 374, 387, 449 ha segnalato altri codici in cui ricorre mano A dei codici remigiani; nessuna identificazione è stata finora possibile.
E sempre a proposito della Cronica, a partire dal nome di taluni autori forniti da Orlandi, Necrologio I, XLIX ss, si è affermato che autore della notizia biografica di Remigio dei Girolami sia fra Scolaio di Squarcia (OP 1277, † 8.X.1320) (Capitani, «Studi Medievali» 6/2 (1965) 537; Davis, in AA.VV., Le scuole 283-84).
Esito fiorentino di -arius è –aio, Scolaio, contro -aro (Scolario/ Scolaro) degli idiomi centro-meridionali; Franco Sacchetti, Il Trecentonovelle, nov. 176: “Scolaio Franchi”.
A dire il vero, lo studio del codice del cosiddetto Necrologium I (di fatto Cronica fratrum di SMN, ASMN I.A.1) fa intravvedere che gli autori-cronisti (e consideriamo le prime venti carte, cioè fino all’anno 1320) non si susseguono come suggerisce l’Orlandi; secondo costui fra Pietro dei Macci avrebbe scritto fino a f. 12r (fino all’obitus 177) e fra Scolaio di Squarcia gli sarebbe subito succeduto (ORLANDI, Necrologio I, p. XLIX). I dati di cui si dispone sono le grafie del testo della Cronica e le saltuarie indicazioni che lo stesso documento dà su taluni scriptores (i tardivi cronisti Matteo Biliotti 1586 e Vincenzo Borghigiani 1757-60, menzionati dall’Orlandi, non disponevano d’altre fonti, e comunque non le indicano). Pietro di Galigaio dei Macci († 1.VII.1301) «huius libelli et cronice compilator extitit et inventor» (n° 179); Scolario di Squarcia del popolo San Iacopo d’Oltrarno (OP 1277, † 8.X.1320) «presentem cronicam ex parte multa compilavit» (n° 221); Bonfantino di Pazzo dei Bonfantini († III.1337) «multorum fratrum sibi premorientium preconia in hoc libro manu propria annotavit» (n° 280); Paolo da Santa Croce († 9.VI.1348) «magnam partem huius cronice compilavit» (n° 355); Paolo di Lapo dei Bilenci († 20.XI.1381) «in hoc etiam presenti cronica fratres plures preclare laudavit maxime eos qui maxime tempore pestis flebilis 1348...» (n° 496). Ora tali informazioni degli autori della Cronica né sono sistematiche, quasiché si sia voluto tramandare il nome di tutti gli scriptores, né soprattutto asseriscono alcunché circa la successione al lavoro di cronista, se non quanto è lecito dedurre dagli estremi della loro entrata in religione e della loro morte. Dall’altra parte lo studio del codice rivela che tra i due blocchi di scrittura entro le prime venti carte - da rimettere alla paternità di Petro dei Macci e Scolaio di Squarcia sull’autorità della stessa Cronica - si succedono e alternano anche altre mani. Solo un’edizione critica del prezioso documento e uno studio paleografico minuto delle grafie potrebbero determinare le mani che si succedono al lavoro di registrazione dei decessi. Allora le frammentarie indicazioni degli scriptores risulterebbero utili per dare un nome alle grafie, o almeno a talune di esse (vedi anche quanto giustamente annota in proposito POMARO, Censimento I, 335 n. 24).
Per quel che interessa il nostro punto, va segnalato che una medesima mano, di tipo notarile-cancelleresco, ha steso la sequenza delle notizie biografiche di Accorso da Monte di Croce († 1.II.1318), Filippo converso († 14.III.1319), Albertino Mazzante di Cambio († 1319), Remigio di Chiaro di Girolamo († 1319), Scolaio di Squarcia († 8.X.1320), Riccoldo da Monte di Croce († 31.X.1320) (ASMN I.A.1, ff. 19v-20v, numeri 217-222 di ed. Orlandi; cf. Studio 188 e Tav. V). Se Scolario avesse scritto l’articolo necrologico di Remigio, sarebbe l’autore della propria necrologia!
L’articolo della Cronica fratrum di SMN ha fornito il primo autorevolissimo nucleo biografico di Remigio. La letteratura remigiana vi ha fatto e vi fa continuo ricorso; ma vi ha incontrato anche molti inceppi (cf. Davis, in AA.VV., Le scuole 283-86).
Le difficoltà di concordare i dati cronologici della Cronica hanno origine in parte da un’errata trascrizione della notizia, in parte da un’interpretazione non avallata dal testo della Cronica: che cioè la durata del lettorato (40, non 42, anni e più) si riferisse al lettorato «fiorentino».
La rilettura del testo della Cronica non risponde certo a tutte le nostre curiosità, i dati anzi sulla morte di Remigio sono lacunosi se paragonati con quelli provvisti per confratelli a lui prossimi nelle carte della Cronica; e a domande non evase dal documento bisogna trovar risposta da altre fonti. Ma ciò che qui preme annotare è che i dati biografici della Cronica non sono contraddittori né cozzano con quanto accertato tramite altre fonti (Cronologia remigiana).
Ecco in sintesi quanto si può ricavare dalla Cronica (ed. in Studio 189-90):
- Remigio morì nel 1319 (e riteniamo l’anno secondo il computo moderno);
- trascorse nella vita religiosa 51 anni e 10 mesi;
- già licenziato in arti a Parigi, entrò nell’ordine a Saint-Jacques e in breve tempo progredì talmente in virtù e scienza che ancora diacono fu nominato lettore nel convento fiorentino («brevi admodum tempore sic profecit quod etiam ante presbiteratus honorem existens dyaconus in conventu florentino ad lectoratus officium est promotus»);
- nell’ufficio di lettorato («in quo quidem officio») perseverò, predicando e insegnando, 40 (non 42) anni e più;
- avanti negli anni e fiaccato dalla vecchiaia cessò dalla predicazione e insegnamento, si dedicò completamente alla consulenza spirituale nonché «scriptitationi et compositioni librorum sacrorum, quorum plurima ac perutilia edidit».
Morto dunque nel 1319, Remigio dovette entrare nell’ordine nel 1267-68. Non si dice l’anno d’inizio del lettorato fiorentino né quello della cessazione da insegnamento e predicazione; ma la Cronica non parla di 40 anni e più di lettorato «fiorentino» bensì di 40 anni e più di «lettorato»; sia esso dunque fiorentino che d’altri conventi. Mentre si dice espressamente che il lettorato non durò fino alla morte.
Sappiamo dallo studio dei codici che il frate fiorentino attese al riordino, supervisione della trascrizione ed edizione («edidit» dicono Cronica e molti explicit delle opere) dei propri scritti negli anni 1314-16. Se supponiamo questi anni come termine dell’insegnamento e detraiamo i 40 di lettorato, l’inizio del primo lettorato «fiorentino» cade negli anni 1274-76. Ma nei «40 anni e più» di lettorato vanno computati sia quello fiorentino (il primo e i successivi) che quello parigino e perugino ben documentati, ed eventualmente lettorati in altri conventi della provincia Romana, se ve ne furono. La partecipazione ai capitoli generali non pregiudica l’anno accademico, dato che i capitoli non durano di regola che la settimana successiva alla festa dei Pentecoste (cf. MOPH III, 123, 127, 131); cosicché non appare giustificato detrarre dagli anni di lettorato gli anni accademici coincidenti con la partecipazione ai capitoli generali.
I dati generali della Cronica lasciano sì indeterminati molti punti importanti della carriera di Remigio ma non sono contraddittori. Il lasso di tempo fra entrata in religione (1267-68) e verosimile inizio del lettorato fiorentino (1274-76) rendono ragione del periodo di noviziato (o probationis), della formazione teologica di base (studio della Bibbia e delle Sentenze) in Saint-Jacques di Parigi, della partecipazione alle lezioni di Tommaso d’Aquino nel secondo insegnamento parigino di costui (1269-72); e rendono ragione infine di quanto affermato dall’autore della Cronica: «brevi admodum tempore sic profecit quod etiam ante presbiteratus honorem existens dyaconus in conventu florentino ad lectoratus officium est promotus».