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III.3  Studi regionali e cultura internazionale

Un’attività dottorale lontana sì geograficamente dai grandi centri universitari ma non “provinciale”. La questione collativa De subiecto theologie (1297-99), di Remigio che inaugura il baccellierato sentenziario in Parigi, non poteva non risentire del clima dell’università parigina di fine XIII secolo: spirito «garlandico e puerile» degli opponenti della disputa emigrato nella facoltà di teologia da quella delle arti (De subiecto theologie 507-09, ed. pp. 62-63), confronto imposto ai discepoli di Tommaso d’Aquino da solide elaborazioni teologiche dell’ultimo quarto di secolo, quali quelle d’un Egidio Romano e d’un Enrico da Gand, almeno per i nomi sicuramente individuabili dallo spoglio di fonti e tesi anonimamente chiamate in causa nella questione «de subiecto».

■ De subiecto theologie 4-9, 272-73, 419-20 (riferimenti a Egidio Romano), 392-401 (riferimento a Quodl. XII (1288), 1 di Enrico da Gand) (pp. 37-38, 49, 59, 57-58). Il riferimento in De subiecto theologie 590-92 (p. 66) trova eccellente riscontro in Egidio Romano, Quodl. XIII (1288), 2: «Propter quod sciendum quod nomine Dei intelligitur “quoddam pelagus substantiae infinitum”, ut innuit Damascenus lib. I, cap. 20. De hoc ergo intendimus dicere quod Deus, in eo quod Deus sive Deus sub absoluta ratione, non possit esse subiectum in sacra pagina, quia pelagus infinitum, sub ratione qua pelagus infinitum, non potest esse subiectum in hac scientia» (ed. Lovanio 1646, p. 128a); segue ib. pp. 128-29 ampia illustrazione; tutto l’articolo è centrato sul pelagus infinitum, categoria tratta da Giovanni Damasceno, De fide orthodoxa I,9, trad. greco-latina (1153-54) di Burgundione da Pisa (ed. E.M. Buytaert, St. Bonaventure - New York 1955, 49). Lo conferma l’Incerti auctoris impugnationes contra Aegidium Romanum contradicentem Thomae super primum Sententiarum: ed. G. Bruni, Roma 1942, 6.

Ma un’introduzione alla scienze filosofiche quale la Divisio scientie, frutto d’insegnamento scolastico in uno studio domenicano della provincia Romana e databile attorno al decennio 1285-1295, se da una parte mostra evidenti caratteristiche d’un testo sintetico e cursorio - più orientato alle esigenze didattiche degli studenti che all’elaborazione personale e al confronto con tesi altrui - dall’altra testimonia letture ed interessi letterari che non mortificano le modeste pretese del testo con l’estraneità alle passioni culturali coltivate in un centro universitario quale il parigino. Nella Divisio scientie si fa uso d’un testo che aveva inaugurato sistematicamente e ratificato il massiccio ruolo delle opere aristoteliche nella ristrutturazione epistemologica delle discipline filosofiche: il De ortu scientiarum d’un esimio maestro della facoltà delle arti, Roberto da Kilwardby, composto molto probabilmente ad Oxford intorno al 1250 (Divisio scientie, MD 12 (1981) 74-75). E vi si mostra soprattutto interesse non incidentale per un’opera ritenuta aristotelica per comune consenso e mirante a integrare, con l’Etica nicomachea e la Politica, il trittico della filosofia morale: gli Economici. Di questi Remigio dice che, quando scriveva, non era ancora disponibile la traduzione latina, ma che lui aveva veduto il testo (greco?). Poi, a traduzione avvenuta, citerà gli Economici (Divisio scientie pp. 99-100; cf. pp. 59-61). Colpisce l’informazione bibliografica e la rapidità della documentazione, specie se si considera che nel 1280 un maestro delle arti dell’università parigina, Giovanni di Dacia, ignorava che esistesse un libro degli Economici e rimetteva la trattazione dell’etica economica al libro della Politica, quando nell’impresa della prima traduzione degli Economici - condotta alla corte papale d’Anagni nel 1295 - figurava maestro Durando d’Auvergne in qualità di procuratore dell’università parigina (ib. pp. 61, 73).

La medesima rapida immissione nelle correnti della koiné intellettuale della schola si riscontra nei quodlibeti. Disputati in Italia - il secondo certamente a Perugia - i quodlibeti rispondono all’occorenza a quesiti dagli evidenti tratti del qui e ora, il che dopotutto conferma che la disputa accademica non aveva ancora prevaricato la realtà per rincorrere la compiacenza dell’esercizio di scuola. Quol. I, aa. 9,10,11,12 e Quol. II, aa. 9,11,13,14 hanno tutti i segni del dibattito rivolto ad illustrare casi concreti, su cui gl’interlocutori sollecitano il giudizio del maestro. Quol. II, 11 può difficilmente disilludere l’ipotesi che gl’interlocutori abbiano riversato nell’aula scolastica della disputa magistrale una reale contesa giuridica di competenza territoriale tra magistrati di Perugia e magistrati d’Assisi. Così come i trattati politici De bono pacis, De bono comuni e molti sermoni d’occasione si commisurano con i capovolgimenti sociali e politici che agitarono la vita civile di Firenze all’avvento al potere dei guelfi neri (1302). Ma gli altri temi dei quodlibeti si ricongiungono al commonwealth della vita intelluttuale dell’Europa latina animata dall’élite clericale delle università medievali. Gli stessi problemi sono dibattuti - a dire il vero, con non molta varietà né tematica né dialettica - a Parigi a Oxford a Colonia. Di tale vita intellettuale i quodlibeti del fiorentino Remigio dei Girolami, sebbene disputati fuori e lontano dai grandi centri universitari, testimoniano la vasta e rapida circolazione. Sotto questo aspetto uno studio regionale dei frati Predicatori del centro Italia non soffre estraneità dai movimenti culturali di marca scolastica che hanno i loro impulsi nei centri universitari; vi si immette anzi con sorprendente tempestività e vivacità intellettuale (vedi il caso or ora menzionato del libro degli Economici, e per i quodlibeti l’utilizzazione degli opuscoli di Proclo tradotti a Corinto nel 1280 da Guglielmo da Moerbeke OP) e non senza preziosi contributi: nel De subiecto theologie, ad esempio, dove a sostegno della tesi tomasiana della Summa theologiae che Dio, senz’altra specificazione, è soggetto della teologia, viene allargata e approfondita la ricerca sulle categorie aristoteliche soggetto-potenza-abito-atto quale base filosofica della soluzione, e si rinuncia all’immatura soluzione data da Tommaso nell’In I Sententiarum; o quando sull’internazionalità dei dibattiti intellettuali (rapporto tra imperium e sacerdotium, potere temporale e potere spirituale) s’innesti la peculiarità delle formazioni politiche locali: la realtà specifica del comune di Firenze spingerà Remigio a sorpassare gli obsoleti termini bipolari imperium-sacerdotium della tradizionale trattatistica della teoria politica e ad abbozzare una filosofia politica su misura del «comune», che renda cioè ragione della nuova base sociale d’una polis; a svolgere addirittura la categoria di «bonum commune» in «bonum communis»; una “teologia politica comunale”, secondo una formula di felice conio. E si seguono puntualmente le vicende del “caso Tommaso”, secondo il corso che di volta in volta gl’imprimeranno o le ripetute censure ecclesiastiche o le contestazioni d’intelligenze acute, quali un Enrico da Gand, un Egidio Romano, un Goffredo da Fontaines.

■ Riferimenti, per quanto accertabili in una letteratura disparata quale la quodlibetale: Quol. I,1,52-55 (vedi rispettive note), Quol. II,1,77 (teoria della duplice forma sostanziale), e probabilmente Quol. II,1,101-103, Quol. II,15,86-92 a Enrico da Gand (i suoi quodlibeti ora in ed. critica curata da R. Macken, Leuven-Leiden 1979 ss); Quol. I,2,64-76, Quol. I,6,23 ss (molti degli argomenti a sostegno dell’essere intenzionale della luce) a Egidio Romano.

Remigio risponde a sollecitazioni della realtà locale, a Firenze come a Perugia, ma non ignora quanto si dibatte e si elabora a Parigi.

In Italia, più precisamente nello studio della curia romana, il francescano Matteo d’Acquasparta disputò tra 1279 e 1287 la questione Utrum in Christo sit unum tantum esse (Matthaei ab Aquasparta, Quaestiones disputatae selectae II, Quaracchi 1914, p. VIII; cf. ib. pp. VIII-IX). La prima e unica obiezione riportata da Remigio in Quol. I,4 non sarebbe sufficiente da sola per determinare se avesse di mira l’argomento 7 «sed contra» della questione di Matteo d’Acquasparta. Ma Quol. I, 4 rinvia al De uno esse in Christo dove il soggetto - si dice - è trattato più sistematicamente, «plenius executi sumus» (Quol. I,4,19-20). Il De uno esse in Christo porta ventisette obiezioni: ed. M. Grabmann in «Estudis Franciscans» 34 (1924) 260-77 (revisione del testo in Remigiana..., MD 1982, 418-20). Di queste ben quattordici sono certamente riconducibili al testo della questione di Matteo. Talune abbreviano e parafrasano, talaltre trascrivono alla lettera il testo di Matteo, il quale - discostandosi in questo caso da san Bonaventura - risolve nella netta affermazione di più esseri in Cristo in opposizione alla costante tesi tomasiana dell’unico essere.

■ Il riferimento a Tommaso d'Aquino lo si riscontra all'inizio della soluzione, là dove Matteo espone la tesi contraria riferendo della duplice accezione di esse come copula verbale e come actus entis: è la distinzione di Tomm, Quodl. IX, a. 3, riportata anche da Remigio in De uno esse in Christo (ed. cit. pp. 266-67) e in Quol. I, 4. Cf. F. PELSTER, La quaestio disputata de Saint Thomas «De unione verbi incarnati», «Archives de Philosophie» 3/ fasc. 2 (1925-26) 198-245: a p. 236 n. 1 si segnala il riferimento a Matteo d'Acquasparta nel De uno esse in Christo di Remigio; vedi anche ID. in «Scholastik» 1 (1926) n. 53, pp. 142-43.

Matteo anzi sfiora l’intransigenza quando denuncia la gravità dei pericoli teologici annidati nella tesi opposta: «Ista autem positio, quamvis magistrorum sit et multum subtilis et probabilis videatur, tamen, sine praeiudicio, non est multum secura, quoniam repugnat veritati incarnationis, integritati perfectionis in Christo et veritati vitae et mortis, quae tria manifeste convincunt in Christo fuisse et esse plura esse et ipsum plura esse habuisse».  E più in là: «Contrarium vere omnino his repugnat, sicut ostensum est; modus autem ponendi omnino videtur esse frivolus». (Matthaei ab Aquasparta, Quaestiones disputatae selectae II, 165, 168).

Ed è proprio intorno a questi tre capisaldi della cristologia, messi in pericolo - secondo Matteo - dalla tesi dell’unicità dell’essere, che Remigio riordina nella sezione delle obiezioni il materiale della questione del maestro della curia papale: «Item dicunt quod ponere in Christo tantum unum esse repugnat veritati incarnationis et integritati perfectionis et veritati resurrectionis» (De uno esse in Christo ob. 13, ed. Grabmann 261): obb. 13-14 veritas incarnationis, obb. 16-17 integritas perfectionis, ob. 18 veritas resurrectionis. Ma in pratica quasi tutto il contenuto della questione di Matteo diventa materiale delle obiezioni nel De uno esse in Christo di Remigio. Per dissipare ogni dubbio, metto a confronto alcuni brani dalle incontestabili coincidenze letterali. Accertata l’utilizzazione da parte di Remigio del testo di Matteo sulla base di brani ripresi alla lettera, il riferimento alla questione di Matteo viene corroborato anche là dove Remigio compendia.

Matteo d’Acquasparta, Quaestiones disputatae

Remigio, De uno esse in Christo

Ulterius, sicut esse est actus entis, ita intelligere est actus intelligentis et velie actus volentis; sed quoniam in Christo fuerent plures intelligentiae, vere secundum plures intelligentias fuerent plura intelligere, et tamen unus intelligens. Similiter, quia fuerunt plures voluntates, secundum plures voluntates fuerunt vere plura velle, et tamen nonnisi unus volens. Ita ergo, si in Christo fuerent, immo quia plures essentiae, secundum pluras essentias fuerunt plura esse, et tamen unum solum exsistens, quemadmodum esse et actus substantialis entis, ita intelligere intelligentis et velle volentis (Quaestiones disputatae selectae II, 168).

Item sicut esse est actus entis, ita intelligere est actus intelligentis et velie volentis et sapere sapientis. Sed in Christo fuit duplex intelligere secundum duplicem intellectum, et tamen fuit tantum unus intelligens. Et similiter contingit de aliis.

Ergo Christus secundum duplicem essentiam habebit duplex esse, et tamen erit unus existens. Sicut enim essentia dicitur ab esse ita sapientia a sapere, secundum Augustinum in libro VII De Trinitate (ob. 19).

Rursus, sicut forma accidentalis se habet ad esse tale, ita substantialis ad esse substantiale; sed in Christo formae accidentales vere dabant sibi esse tale, et plures formae accidentales plura esse talia; ergo plures formae substantiales vel plures essentiae plura esse substantialia (Quaestiones disputatae selectae II, 168).

Item sicut forma accidentalis se habet ad esse tale vel accidentale, sic forma substantialis ad esse substantiale. Sed in Christo plures forme accidentales dabant plura esse accidentalia vel talia. Ergo in ipso plures forme substantiales dabant plura esse substantialia (ob. 20).

Ulterius, etsi esse personale habet essentia a supposito, tamen suppositum habet ab essentia vel per essentiam esse specificum et formale. (…) Esse substantiale vel essentiale est a forma substantiali communi; esse autem individuale, personale vel hypostaticum est a forma propria vel per materiam appropriatam. Hoc dico in creaturis; in Deo nihilominus ista esse differunt suo modo, quoniam, ut dicit Augustinus, VII De Trinitate: «Pater alio est Deus, alio Pater, quia deitate Deus, paternitate Pater»; esse ergo commune habet a communi essentia, scilicet a deitate, sed personale esse habet a relativa proprietate. In eodem igitur impossibile est esse plura esse personalia, quia una est tantum proprietas personalis; sed in eodem possunt esse plura esse substantialia sive formalia, quia idem individuum sive suppositum potest reponi et collocari in diversis sive pluribus generibus (II, 169-70).

Item etsi essentia habet esse personale a supposito, tamen suppositum habet esse specificum et formale ab essentia. Propter quod esse substantiale seu specificum est a forma substantiali comuni; esse autem individuale vel ypostaticum est a forma propria vel per materiam apropriata. Hoc dico in creaturis. In Deo nichilominus ista differunt suo modo, quoniam secundum Augustinum in libro VII De Trinitate «Pater alio est Deus, alio est Pater; divinitate est Deus, paternitate est Pater». Esse igitur - inquiunt - comune habet Pater a comuni essentia scilicet divinitate, sed esse personale habet a relativa proprietate. In eodem igitur - inquiunt - impossibile est esse plura personalia, quia una est tantum proprietas personalis; sed in eodem possunt esse plura esse substantialia sive formalia, quia idem individuum potest reponi in pluribus generibus (ob. 24).

   

Accertati i contatti testuali, non si può non cogliere l’importanza del fatto. Remigio, informatissimo di quanto si elabora in Parigi, risulta informatissimo di quanto si dibatte in Italia, nel nostro caso presso lo studio della curia romana dove prevale - fino al trasferimento della sede papale ad Avignone - l’insegnamento di dottori francescani.

F. Ehrle, L’agostinisino e l’aristotelismo nella scolastica del secolo XIII, «Xenia Thomistica» III, Roma 1925, 578-79. Ma tener presente le precisazioni di R. Creytens, Le “studium romanae curiae” et le maître du sacré palais, AFP 12 (1942) 5-83, in particolarè p. 55. R. Ritzler, I cardinali e i papi dei frati Minori Conventuali, «Miscellanea Francescana» 71 (1971) 3-77. Nessun domenicano fu lettore nello studio della cura romana tra 1262-63 e 1306: «Nam sua <scil. Nicholai de Prato> procuratione sollicita, a papa Clemente memorato [= Clemente V, 1305-14] inpetravit quod in sacro palatio esset doctor frater Predicator, quod a tempore fratris Alberti de Alamania nullus deinceps fratrum nostrorum legere seu docere valuit in antedicto sacro palacio (Cr Pg 5v). In rapporto a Tommaso d’Aquino: J.A. Weisheipl, Friar Thomas d'Aquino. His Life, Thought and Works, New York 1974, reprint Washington 1983, 147-63; Torrell, Initiation 172-73.

Contro l’insegnamento impartito nella curia romana dall’autorevole Matteo d’Acquasparta (succeduto nel medesimo ufficio a un Giovanni da Peckham e divenuto ministro generale nel 1287, cardinale nel 1288), Remigio sostiene la tesi dell’unicità dell’essere in Cristo nella versione tomasiana; l’espone organicamente nella questione De uno esse in Cbristo (che l’explicit chiama determinato) e la ripropone in forma sintetica nell’art. 4 del primo quodlibeto. Nell’uno e nell’altro testo Matteo d’Acquasparta è preso personalmente di mira.

Prima di Remigio, un anonimo domenicano aveva disputato a Perugia nel 1284-85 una Questio de unico esse in Christo, trasmessa dal Vatic. lat. 14013, codice proveniente dal convento domenicano di Cortona. Pur nella povertà delle testimonianze letterarie pervenuteci, s’intravvedono frammenti che reclamano intrecci e persuadono continuità. È un vero peccato che l’explicit della questione, che pure informa del luogo e tempo, taccia il nome del frate. « Explicit questio de uno esse tantum in Christo, quem disputavit quidam frater Predicator Perusii tempore domini Martini page quarti» (AFP 1949, 121).

Prima del 1287 gli Atti dei capitoli provinciali della provincia Romana (ed. Th. Kaeppeli, Roma 1941) non trasmettono i nomi e le assegnazioni dei lettori. Ogni proposta d'attribuzione resterebbe semplice ipotesi. La tesi esposta dall'anonimo domenicano è chiaramente tomasiana. Ricordo che l'inventario quattrocentesche della biblioteca di San Domenico di Perugia registra: «Item questiones de anima eiusdem [S. Thome de Aquino], cum tractatu de uno esse in Christo cuiusdam fratris Remigii in fine, sine tabulis» (T. KAEPPELI, Inventari dei libri di San Domenico di Perugia, 1430-80, Roma 1962, p. 87, A 504). Si tratta palesemente del De uno esse in Christo di Remigio dei Girolami, sebbene il ricordo di costui in Perugia fosse svanito nel XV secolo, se è lecito trarre un'indicazione di tal genere dal «cuiusdam fratris».

Il testo è di limpida stesura e di robusta fattura. La soluzione nella linea tomasiana presenta notevoli affinità testuali con Quodl. IX, 3 e un’allusione all’In III Sent. d. 6, q. 2, a. 2 ad 1 di Tommaso d’Aquino. A Roma, a Perugia, a Firenze, e verosimilmente in altri studi della provincia Romana, le tesi di Tommaso furono diffuse di buon’ora. Anche contro il corso teologico allora prevalente nello studio della curia romana.

S. L. Forte, A late thirteenth century collection of questions in ms. Vat. lat. 14013, AFP 19 (1949) 95-121; in 118-19/127-41 esempio della mano miracolosamente riattaccata al corpo per spiegare come la natura umana assunta in Cristo non comporti un altro essere ma un’altra relazione; lo si ritrova anche in Remigio, De uno esse in Christo ob. 7 (ed. p. 260).

■ Le riserve espresse da K. Foster, nel saggio peraltro magistrale Tommaso d’Aquino, «Enciclopedia Dantesca» V (1976) 626-49, sulla diffusione del primo tomismo in Italia a motivo - si dice - dell’inesistenza di facoltà di teologia nelle università italiane (pp. 632b-633a) dovranno esser temperate dall’individuazione d'attività letterarie e centri culturali extrauniversitari ma immessi con sorprendente rapidità nel medesimo circuito internazionale della cultura filosofico-teologica elaborata nelle università dell’Europa settentrionale. Mi sembra questo il senso dei dati qui raccolti.

Un’ultima annotazione su Matteo d’Acquasparta. Si era creduto di poter riconoscere Matteo d’Acquasparta, morto a Roma il 29.X.1302, nel sermone remigiano in morte d’un «dominus Matheus cardinalis defunctus» (G. Salvadori - V. Federici, I sermoni d’occasione, le sequenze e i ritmi di Remigio Girolami Fiorentino, Roma 1901, sermone XI, e indice). Le allusioni contenute nel testo dissuadono da tale identificazione, mentre trovano più congrua corrispondenza nella carriera del potente cardinale Matteo Rosso degli Orsini, † Perugia 14.IX.1305. Ma sempre nella sezione dei sermoni d’occasione, sotto la rubrica “De allocutione seu receptione dominorum seu prelatorum” Remigio ha lasciato tre sermoni “De ministro Minorum” (cod. G4, ff. 354rb-355rb). Non vi si fa alcun nome. Nel primo (Sapiens in verbis) si dice che l’ospite, in visita ai frati Predicatori, è prelato e maestro in teologia; nel terzo (Ecce quam bonum) si dice che il visitatore, ministro generale di frati Minori, «fuit caput in scolis, quia magister in theologia, gratioseque et gloriose officium magisterii exercuit Parisiis», «predicator et sermocinator egregius». Bisognerà studiare più attentamente i tre sermoni (sicuramente anteriori al 1314-15) per proporre un’identificazione attendibile tra i ministri generali dei Minori, cardinali e maestri in teologia, di cui uno fu a suo tempo reggente a Parigi. Matteo d’Acquasparta (due volte legato papale a Firenze), con Gentile da Montefiore e Giovanni Minio da Morrovalle, potrebbe rivendicare con buone ragioni la propria candidatura a qualcuno di tali sermoni.

Il confronto intellettuale da sponde opposte non dissuadeva il frate medievale né dal rendere omaggio al valore altrui né dall’onorare i doveri dell’ospitalità.

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