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Convento San Domenico di Foligno

■  letteratura folignate in corso  ■

 

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C. Longo [† 10.V.2017], Sull'autore della "Legenda" del beato Pietro Crisci, «Bollettino storico della Città di Foligno» 31-34 (2007-2011) 345-69: nella cartella "Longo". Grazie!

Pietro Crisci da Foligno († 1323). «Legenda de uita et obitu gloriosi confessoris beati Petri de Fulgineo composita et ordinata per fratrem Ioannem Gorini de Sancto Geminiamo ordinis fratrem Predicatorum de mandato reuerendi in Christo patris et domini, domini Ioannis, Dei gratia episcopi Fulginatensi<s>, ad laudem et honorem Dei sueque sanctissime matris nec non ad honorem et magnificationem dicci confessoris sanctissime Petri totiusque ciuitatis et populi Fulginatis» (p. 355). Legenda redatta in Foligno nel 1375 ca., da Giovanni di Gorino da San Gimignano OP: suoi estremi cronologici attestati 1338-1391; SOPMÆ II, 544; IV, 171.

pp. 365-66: «A nostro parere è da collocare attorno al 1375 la sua permanenza <di fra Giovanni di Gorino>, non sappiamo quanto prolungata, nel convento di San Domenico di Foligno. Qui i domenicani si erano insediati nel 1285 e qui dal 1367 aveva avuto inizio la signoria dei Trinci. La città stava allora vivendo un momento fortunato di espansione economica e sociale e necessitava di simboli propri per distinguersi dalle città vicine e nello stesso tempo per aggregare attorno ad essi lo spirito civico della popolazione. La pregnanza della santa figura del beato Pietro Crisci, san Pietrillo, come veniva affettuosamente denominato, che molti avevano conosciuto, poteva costituire il polo di aggregazione attorno a cui costruire una forte identità cittadina, guidata dall'intraprendenza e dal mecenatismo dei Trinci, formalmente vassalli del papa, ma che speravano governare il loro territorio in piena autonomia. Così il beato Pietro divenne figura simbolica di questa vivace realtà economica e sociale ed il vescovo Giovanni Angeletti (1364-1392), folignate nativo del castello di Popola, diede incarico al frate presumibilmente più idoneo residente in città a stendere la Legenda Fr. Giovanni Gorini, frate dotto e maturo, pur non essendo folignate, ma forse proprio per questo non coinvolto in diatribe locali o in schieramenti ecclesiastici, stese attorno al 1375 un testo denso di significati religiosi e di ispirazioni morali; breve, perché potesse essere letto anche in pubblico; elegante, perché ascoltarne il ritmo non stancasse, anzi affascinasse l'uditorio».

«Dominican history newsletter» 18-19 (2009-2010) pp. 11, 13-14.

B. MARINELLI, I tesori scomparsi della chiesa di San Domenico in Foligno, AFP 80 (2010) 281-347.

Pg 281: «Questo studio, dedicato alle cappelle della chiesa già conventuale di San Domenico in Foligno, edificate tra XVI e XVII secolo e completamente distrutte nel 1863 quando l'edificio fu adibito a scuderia della cavalleria italiana, prende le mosse da un registro di ricordanze dell'annesso convento, che si conserva nell'Archivio del convento di San Domenico di Perugia ed è stato pubblicato più di venti anni addietro senza alcun apparato critico. La prima parte, che per brevità indicherò come Ricordi 1, è il Libro generale delle memorie compilato nel 1754 da fra Tommaso Maria Duranti, sindaco e sottopriore annuale del convento di Foligno, sulla base di altri manoscritti andati dispersi e di notizie tratte dal Libro C, Ricordi che costituisce l'altra parte del registro, e successivamente aggiornato fino agli anni Novanta del medesimo secolo (M. Sensi, I «Ricordi» del convento di S. Domenico in Foligno, «Bollettino storico della Città di Foligno» 12 (1988) 189-245). La seconda parte, che indicherò come Ricordi 2, è appunto il Libro C, Ricordi, unica fonte a noi pervenuta tra quelle cui ha attinto il Libro generale e contiene ricordi relativi all'arco cronologico 1728-1859, raccolti probabilmente dal segretario capitolare pro tempore» (M. Sensi, I «Ricordi»..., «Bollettino storico della Città di Foligno» 13 (1989) 373-416).

Foligno 22.VI.2010. Assemblea del Centro di ricerche Federico Frezzi. Le attività svolte dal Centro di Ricerche ed in corso di realizzazione (2006-2010). Relazione scientifica della prof. E. Laureti segretaria generale:

p. 5: «L'individuazione dei documenti storici atti a definire in maniera via via più organica i dati biografici di Frezzi è uno dei compiti primari del Centro di Ricerche. A questo scopo, stiamo predisponendo l'edizione del testo latino con il quale il grande teologo domenicano Simone da Càscina presentò (1390) al corpo accademico dell'Università di Pisa la tesi dottorale in Teologia di Frezzi. Questo manoscritto, un sermo licentiae (secondo la nomenclatura scientifica del tempo), si conserva nella Biblioteca Apostolica Vaticana, nel codice Barber. lat. 710, numero 164, f. 106vb; è stato appositamente trascritto dal dottor padre Emilio Panella, Archivista del convento di Santa Maria Novella in Firenze, tra i maggiori studiosi dell'ordine domenicano; recherà una nota introduttiva della professoressa Maria Pia Paoli dell'Università degli Studi di Pisa e una nota documentalistico-paleografica del dottor Paolo Vian della Biblioteca Apostolica Vaticana».

ELENA LAURETI, Caterina, i Trinci, Federico Frezzi, «Bollettino della Pro Foligno» 10/12 (dicembre 2010) p. 7:

«I Folignati certo conosceranno i legami che la santa di Siena, Caterina, mantellata domenicana, intrecciò con la famiglia Trinci, nel periodo in cui erano Signori in Foligno Trincia Trinci (dal 1346 al 1377) e Corrado, suo fratello (dal 1367 al 1386).

Forse, però, giova rinfrescare la memoria. Notevole la vicenda umana e mistica di Caterina Benincasa (Siena 1347 - Roma 1380), che sin da bambina manifestò le sue convinzioni: già a sei anni aveva avuto la sua prima visione mistica, a sette espresse la volontà di mantenere la sua purezza virginale, a quindici si oppose con fermezza ai progetti matrimoniali dei genitori, a sedici entrò nel Terzo ordine delle domenicane. Caterina non si accontentò di vivere esclusivamente nell'ascesi mistica, isolata dal mondo "sporco e cattivo", quanto cercò, e ci riuscì, di riformare quel mondo, operando con ferrea volontà e nelle azioni e nelle meditazioni spirituali, lei che sapeva appena scrivere (come la maggioranza delle donne della sua epoca, e delle epoche a venire), ma la scrittura è solo uno strumento: lei dettava lettere infuocate, indirizzate ai potenti disseminati sul territorio italiano ed estero, i suoi discepoli scrivevano per lei. Tralasciando le importanti ipotesi critiche sugli eventuali filtri che gli scriventi potrebbero aver frapposto, emergono, tuttavia, chiarissime le peculiarità inoppugnabili di Caterina: la forza e la passione nell'eloquio, la volontà persuasiva e ferrea che traspare dietro disarmanti e "ingenue" locuzioni diplomatiche nei confronti degli influenti interlocutori, di quelli che nel loro ambito socio-politico, con una parola, un ordine, un diverso atteggiamento potevano risollevare le sorti delle persone vessate dalle lotte fratricide, dalle invasioni di crudeli capitani di ventura, (Frezzi nel suo poema ne traccia un quadro terribile); oppure, se i potenti interlocutori appartenevano alla sfera religiosa, potevano, cambiando essi stessi comportamento, risolvere politicamente - come il ritorno del papa francese, ormai il settimo, Gregorio XI, da Avignone a Roma, il che Caterina ottenne nel 1377 -, o moralmente, richiamando alle originarie norme evangeliche, vescovi, cardinali, abati, padri provinciali e chiunque potesse con la specifica autorità riformare i costumi corrotti della Chiesa. Ed anche qui riuscì nell'intento riformatore, tramite legami, catene spirituali, emulazioni, come per la pisana Chiara (1362-1420), figlia del Signore di Pisa (dal 1370 al 1392), Pietro Gambacorta, il quale concesse alla figlia di costruire un convento, non contaminato dalla rilassatezza dei costumi che Chiara, presi i voti, dopo essere rimasta vedova giovanissima, incontrò nel convento domenicano di Santa Croce in Fossa Branda (1379), ove era entrata. Fortemente ispirata da Caterina, Chiara fu la fondatrice del monastero osservante di San Domenico in Pisa, che riceverà nel 1385 la ratifica papale con bolla di Urbano VI: il convento è considerato dagli storici il primo esempio di comunità femminile osservante o riformata dell'ordine domenicano.

Federico Frezzi fa parte dei seguaci di Chiara, il circolo di discepoli che intorno a lei si era consolidato: frati che, nell'Ordine domenicano, rappresentano personalità eminenti, come Raimondo delle Vigne o da Capua, confessore e guida di Caterina, autore della sua biografia Legenda maior, promotore (1390) dell'osservanza all'interno dell'Ordine; Giovanni di Domenico (Dominici), definito "le principale ouvrier" della riforma domenicana, fondatore di conventi riformati-osservanti; Tommaso di Bernardo Aiutamicristo, filosofo e teologo; Lorenzo di Ripafratta che, insieme a Giovanni di Domenico, è considerato uno dei più attivi riformatori dell'Ordine in Italia, suoi discepoli sant'Antonino di Firenze e il beato Angelico. Ancora giovanissimo, Antonino Pierozzi fu influenzato anche dalla forte tempra, spirituale e teologica, di Frezzi, che lo ospitò per circa cinque anni nel convento folignate, discussa è la presenza nel periodo coevo del beato Angelico. Tutti questi religiosi, insieme a Federico, formarono, dunque, un gruppo (informale) di frati predicatori i quali, per usare un'espressione di Raoul Morçay, furono "insensiblement pénétres", dalla "douce e persuasive influence" di Chiara Gambacorta, attenta seguace della santa senese. Caterina, fondamentale per lo spirito osservante del nostro vescovo, ebbe contatti diretti e schietti, tramite le sue lettere, almeno sei, anche con i componenti della famiglia Trinci. La famiglia folignate era diventata e reputata prestigiosa e potente, grazie ad opportuni legami diplomatici e matrimoniali e ad una prudente politica di favore nei confronti del potere papale, passando dalla parte ghibellina alla parte guelfa sin dalla fine del XIII secolo. Fedeli alla Chiesa, - nonostante alcune intemperanze, perdonate dai diversi pontefici succedutisi, di volta in volta, sul trono romano di Pietro e su quello straniero di Avignone, <ricevono> perdono, ottenuto grazie a lauti risarcimenti in fiorini d'oro -, i Trinci esercitarono su Foligno potere signorile fino al 1439. Caterina scrive una prima lettera (la numero 253 delle complessive 381, raccolte e edite come Lettere) a messer Trincio de' Trinci da Fuligno, e a Corrado suo fratello, vicari pontifici, come scrive agli altri Signori, condottieri, regnanti, ovvero a tutti i detentori del potere di governo su città, eserciti, regni, con l'intento dichiarato di ricondurli a costumi moralmente più vicini al verbum di Cristo, di mantenerli fedeli protettori della Chiesa.

Scriverà poi alle donne di casa Trinci, ma queste sono altre storie, storie di donne... e questa è solo la prima puntata».

E. LAURETI, Elogi e consigli di Santa Caterina per i Trinci signori di Foligno, «Bollettino della Pro Foligno» 11/1 (gennaio 2011) p. 9.

ID., Bianchina Trinci, maestra di Santa Caterina da Siena?, «Bollettino della Pro Foligno» 11/2 (febbraio 2011) p. 11:

È proprio vero: cerchi di aprire una finestra sul passato, e ti si aprono porte e portoni a non finire, come in un palazzo principesco (penso al "Gattopardo" di Tomasi di Lampedusa) dove si viene presi in un vortice di arcate interminabili nella loro inquietante, ma affascinante, sequenza. Bene: la morte tragica di Trincia, che Frezzi esalta nel suo poema, mi ha condotta a Caterina Benincasa e alla sua lettera consolatoria a Giacoma d'Este, moglie del defunto; ma il percorso mi riporta a Siena, a Bianchina Trinci in Salimbeni, sorella di Corrado e dell'ucciso, tutti figli di Ugolino Novello, Signore (il quarto) di Foligno. Notizia attraente ma non di grande scalpore, benché in un'indagine sulle reti matrimoniali trinciane avremmo riscontri storici di straordinario interesse. I Trinci perseguivano in modo strategico una politica "matrimoniale": imparentarsi con le più aristocratiche e ricche famiglie della nobiltà "italiana", significava avere ottime probabilità di appoggi diplomatici e, all'occorrenza, militari.

Caterina, un po' come la nostra Beata Angela, passa alla storia come un'illetterata, nello scrivere, perché poi riusciva a dettare ai suoi segretari, nello stesso momento (come Giulio Cesare: peregrina associazione?), finanche tre delle sue famose e infuocate lettere. In realtà non ignorò l'uso della scrittura: acquisì il dono della scrittura da monna Bianchina Trinci: questa è la notizia che suscita immediata risonanza. Ma chi era Bianchina? Era la figlia di..., era la sorella di..., era la moglie di..., era la madre di... Strano destino quello delle donne, esattamente l'altra metà del motore che spinge l'umanità in un autogenerarsi senza fine, ma ... noi donne, ancora oggi, veniamo qualificate, e ancora troppo spesso, come appartenenti a qualcuno dell'universo maschile. E la "grande" storia tramanda storie di uomini, le donne, se compaiono, o sono davvero eccezionali, o sono centrifughe (con loro disdoro) dalla centralità maschile: non sono un'ex femminista, riscontro continuamente un dato di fatto.

Ci salviamo, però, con le "piccole" storie, e se Bianchiva emerge perché moglie di Giovanni Bottone di Agnolino Salimbeni, nobilissima famiglia senese, marito che, peraltro, le venne a mancare nel 1367 per un tragico incidente, mentre se ne tornava da Siena a Rocca Salimbeni, - morì, infatti, schiacciato dal peso del proprio cavallo -, oppure perché madre di un altro rilevante attore della storia, Angelo Salimbeni, podestà in varie città d'Italia, tra cui la nostra Foligno, incarico datogli dal cugino (in primo grado) Ugolino III, allora settimo Signore di Foligno, noi delle altre figlie, Isa e Benedetta, veniamo ad aver cognizione della loro esistenza, grazie alle lettere cateriniane: piccola storia di donne, storie di terribili tragicità; di virtuali coltrizioni sociali, religiose, perché io credo che dietro l'esorbitante numero di monacazioni in stato di vedovanza precoce, molte donne senza dubbio avranno sentito il richiamo del chiostro, ma altrettante si saranno sentite costrette a tale passo dalle convenzioni sociali, così, reputo per Isa, sposa di Paolo Trinci, mentre annovero al primo gruppo Benedetta, due volte sposa, due volte vedova. E le lettere di santa Caterina, in qualche modo, ne sono conferma. Sulle "Lettere" cateriniane esiste il problema critico della loro effettiva datazione, spesso andiamo per supposizioni analizzando i riferimenti di contenuto. Nella lettera (n. 111) indirizzata 'A monna Biancina donna che fu di Giovanni d'Agnolino Salimbeni", si evince (il "fu" iniziale potrebbe essere un'aggiunta postuma) che la Trinci ha già subìto la tragica perdita, perché Caterina, come Frezzi nello splendido capitolo dove tratta dell'eccessivo, e umanissimo, amore che ci lega ai figli, alla famiglia, nello specifico ("La casa, onde fui io, è tutta spenta; / fui da Perugia, di santo Ercolano, e de' Vencioli la prima somenta), così piange il capostipite mutilato delle sue membra, e dei suoi figli, allo stesso modo Caterina si accalora nel sostenere che noi non dobbiamo far dipendere la nostra vita, fisica, ancor più spirituale, dal senso di possesso dei beni e degli affetti terreni, amore terreno e non divino:

"Sempre ci andiamo attaccando. Se Dio ci taglia un ramo, e noi ne prendiamo un altro. Più ci curiamo di perdere queste cose transitorie, che passano come il vento, e delle creature, che noi non ci curiamo di perdere Dio. Tutto questo addiviene per lo disordinato amore che noi ci aviamo posto, tenendole e possedendole fuore della volontà di Dio. In questa vita ne gustiamo l'arra dell'inferno; perché Dio ha permesso che chi disordinatamente ama, sia incomportabile a se medesimo. Sempre ha guerra nell'anima e nel corpo. Pena porta di quello che tiene, per timore che ha di non perderlo; e per conservarlo, che non gli venga meno, s'affadiga il dì e la notte. E pena porta di quello che non ha, però che appetisce d'avere, e non avendolo, ha pena. E così mai l'anima si quieta in queste cose del mondo, perché sono tutte meno di sé. Elle sono fatte per noi, e non noi per loro [argomentazione di grande attualità in questa repellente società dei consumi]; anco siamo fatti per Dio, acciò che gustiamo il suo sommo e eterno bene".

Da questa premessa iniziale, la domenicana si rivolge direttamente a Bianchina con un tono di forte esortazione, convincendola ad abbandonarsi a Dio, ai suoi disegni: egli è sommo in tutto:

"Adunque non voglio che dormiamo più, carissima madre, ma destianci dal sonno; che il tempo nostro s'approssima verso la morte continuamente. Le cose temporali e transitorie, e le creature, voglio che teniate per uso, amandole e tenendole come cose prestate a noi, e non come cose vostre. Questo farete traendone l'affetto; altrimenti, no.Trarre se ne conviene, se vogliamo participare al frutto del sangue di Cristo crocifisso. Considerando me, che altra via non ci è, dissi che io desideravo di vedere il cuore e l'affetto vostro spogliato del mondo; e a questo mi pare che Dio vi inviti continovamente".

Le parole e le lettere, quattro alle donne Salimbeni, confermano una pratica assidua di ospitalità e di intimità con la famiglia di madonna Bianchina Trinci, tanto che il "miracolo" del dono del saper scrivere avvenne proprio mentre Caterina si trovava (1377) alla Rocca del Tentennano, oggi Rocca d'Orda, ospite di Bianchina. Ma il miracolo merita una piccola monografia.

Elena Laureti

E. LAURETI, Santa Caterina: miracolo del cinabro? A casa di Bianchina Trinci, «Bollettino della Pro Foligno» 11/3 (marzo 2011) p. 11:

Perché santa Caterina ha ricevuto il dono che le permetteva di "sprigionare" il suo cuore nella scrittura, proprio mentre era ospite di Bianchina? Dove era ubicata la dimora dei Salimbeni? Bianchina, sorella di Trincia Trinci, sposando Giovanni (di Agnolino) Salimbeni, personaggio eminentissimo tra i cittadini senesi, riconosciuto dalla sua consorteria capo indiscusso, era diventata la contessa Salimbeni, famiglia tra le più aristocratiche di Siena. Il casato vantava nobili origini fin dal secolo XII; tra i suoi avi illustri, un Salimbene Salimbeni fece parte dei Grandi di Siena e, aderendo all'invito del papa Urbano II a partecipare alla prima crociata (bandita durante il Concilio di Clermont, 1095), contribuì con il suo valore alla presa di Antiochia, di cui divenne (per volontà del papa) patriarca: dal 1096 la famiglia fu dichiarata nobile e seguace della Chiesa. Così Giovanni, molto rinomato nelle storie senesi, viene riconosciuto uomo insigne sia per dottrina ed esperienza, sia per ricchezza e potenza, potenza dichiarata dal possesso di molti castelli: Montemassi, Colle, Argiano, Castiglione di Val d'Orcia, Castiglioncello, Perolla, Radicofani, Monteorsaio, Sant'Angelo in Colle, Piancastagnaio, Montegiovi, Boccheggiano in Maremma, Contignano, Castello della Selva, Rocca Toderighi, Rimbecca, Vemio, Mongone, Rocca a Tentennano.

Un'ulteriore testimonianza del suo prestigio lo dimostra il fatto che Giovanni, non solo andò a Pisa, come ambasciatore e amico, presso l'imperatore del Sacro Romano Impero Carlo IV, il quale lo incluse nel suo Consiglio imperiale, ma anche che lo ospitò nelle sue dimore senesi per più giorni, con grande magnificenza, insieme all'imperatrice, mentre procedeva verso Roma per la sacra incoronazione dalle mani del papa. Giovanni nel 1356 fu eletto con piena balìa (cioè con piena autorità di governo) dal Consiglio Generale di Siena per ricevere le Capitolazioni dei Grossetani che si erano ribellati al governo senese.

In realtà la grande potenza e il seguito che aveva il Salimbeni infastidivano non poco i maggiorenti della città, i quali, cercando l'occasione per ridimensionarlo, lo accusarono, nel 1362, di essere a capo di una congiura contro il Consiglio dei XII per ripristinare quello dei IX: riuscì a salvare la vita fuggendo da Siena. Secolare la nobiltà, secolare la faida che contrappose la sua famiglia all'altrettanto nobile e potente famiglia senese, quella dei Tolomei che, alternativamente, nelle lotte intestine, saranno vincitori o vinti, con grave danno per l'intera cittadinanza, poiché negli eccidi venivano coinvolti i rispettivi sodali: case atterrate, incendi, condanne all'esilio o a morte, segneranno la storia delle due famiglie e la storia di Siena. Giovanni, ormai rientrato dall'esilio, muore nel 1367, mentre da Siena se ne tornava a Rocca a Tentennano, schiacciato dal peso del suo cavallo; le responsabilità della consorteria passeranno al figlio Agnolino. Questo clima di incertezze forse spiega come mai le donne della famiglia, insieme all'erede maschio, preferissero alla comodità dei palazzi cittadini, l'inespugnabilità della Rocca a Tentennano, una monolitica aree, a guardia della via Francigena, importante nodo viario medievale che congiungeva Roma con l'Italia settentrionale e la Francia: chiunque andasse o tornasse da Roma, capitale della cristianità, doveva necessariamente passare sotto l'arcigna einespugnabile Rocca di Tentennano in Val d'Orcia, oggi delizioso paesino medievale, pressoché intatto, da qui si comprende e l'importanza del sito stesso, tra i numerosi "castella" dei Salimbeni, e il fatto che la famiglia di Giovanni preferisse l'inespugnabilità alla comodità delle dimore senesi, spesso distrutte nelle e famigerate faide, anche intraparentali.

Le faide spiegano la presenza di Caterina, che vi giunse per la prima volta, accompagnata da Raimondo da Capua, nel 1377, accolta con venerazione dalla contessa Bianchina e dal figlio Agnolino (scopo, poi raggiunto, era riconciliare Agnolino con Cione Salimbeni). Alla partenza di Raimondo, Caterina all'improvviso impara a scrivere, tanto che scrive al suo confessore (non più dettandola ai segretari) una lunghissima epistola, dove a conclusione narra l'incredibile vicenda:

"Questa lettera, e un'altra ch'io vi mandai, ho scritte di mia mano in su l'Isola della Rocca, con molti sospiri e abondanzia di lacrime; in tanto che l'occhio, vedendo, non vedeva; ma piena di ammirazione ero di me medesima, e della bontà di Dio, considerando la sua misericordia verso le creature che hanno in loro ragione, e la sua Providentia; la quale abondava verso di me, che per refrigerio, essendo privata della consolazione, la quale per mia ignoranza io non cognobbi, m'aveva dato, e proveduto con darmi l'attitudine dello, scrivere, acciocché discendendo dall'altezza, avessi un poco con chi sfogare 'l cuore, perché non scoppiasse. Non volendomi trarre ancora di questa tenebrosa vita, per ammirabile modo me la fermò nella mente mia, siccome fa il maestro al fanciullo, che gli dà lo esemplo. Onde, subito che fuste partito da me, col glorioso evangelista Joanni e Tommaso di Aquino così dormendo cominciai a imparare. Perdonatemi del troppo scrivere, perocché le mani e la lingua s'accordano col cuore".

Oltre al lirismo di "avessi un poco con chi sfogare `l cuore, perché non scoppiasse", Caterina tocca una verità oggettiva: lo scrivere, mettendo "nero su bianco", serve a riequilibrare i nostri momenti di tensione, angoscia, passioni, distaccandosene, osservandole come dal di fuori. Non parla di estasi Caterin, come alcuni hanno suggerito, bensì di sonno: altra verità connessa all'apprendimento: studiare di sera, e rifletterci, più o meno consapevolmente nel sonno/sogno, permette una maggiore assimilazione cognitiva. La realtà storica nei fatti è che Caterina, ospite di Bianchina, acquisisce la tecnica scrittoria, ma l'episodio viene qualificato da alcuni biografi come un "miracolo": la santa, presa da divina ispirazione, avrebbe intinto la penna in un vasetto colmo di cinabro liquido e, su di una pergamena, tracciando segni nitidi, dotati di senso, scrisse una poetica preghiera di lode a Dio:

"O Spirito Santo, vieni nel mio cuore:

Per la tua potenza tiralo a Te Dio vero.

Concedimi carità con timore;

Custodiscimi da ogni mal pensiero,

Riscaldami e infiammami del tuo amore,

Sì che ogni peso mi paia leggero.

Santo mio Padre e dolce mio Signore,

Ora aiutami in ogni mio ministero,

Cristo Amore. Cristo Amore! Amen.

All'età di trenta anni, quindi, Caterina apprende la tecnica che le permetterà di raggiungere gli obiettivi perseguiti: espandere la luce della conoscenza spirituale, portare la pace tra i popoli, tra le nazioni, tra le istituzioni, far penetrare fin nelle più profonde pieghe dell'animo umano il difficile concetto della Carità, non solo e semplicemente cristiana, la carità è la virtù che ci permette di amare allo stato puro qualsiasi cosa creata, proprio perché tale. Frezzi dedica a questa virtù teologale gli ultimi quattro capitoli del suo "Quadriregio", inserendovi anche la collocazione delle anime del purgatorio, vicinissime a Dio; la carità, arriva a dire il Nostro: "Ama il demonio, in quanto da Dio pende / per creatura, e non in quanto è rio" (L. IV, cap. 21). Frezzi, tramite Raimondo da Capua, domenicano riformatore dell'Ordine, confessore e biografo della santa, tramite Chiara Gambacorta, fondatrice del primo convento femminile osservante, seguace della Benincasa, destinataria di sue significative missive, si immerge in questo cateriniano spirito riformatore, traducendolo nel suo immaginifico poema didascalico. Straordinarie le capacità che l'uomo esprime grazie alle sue peculiarità intellettive e spirituali. Altrettanto straordinari sono i malevoli percorsi intellettivi che la mente umana riesce ad espandere, attraendo nel male e nella maldicenza le altrui meschinità individuali. La lunga permanenza di santa Caterina a casa dei Salimbeni (dal 1377) susciterà tetri sospetti sia nei maggiorenti di Siena, sia, e qui sta la "grandezza" dell'umana miseria, nei suoi seguaci, tanto da essere accusata di complotto politico.

Elena Laureti

AA.VV., Il vescovo e il notaio. Regesti e trascrizioni dai protocolli (1404-1410) di Francesco d'Antonio, notaio del vescovo Federico Frezzi da Foligno, a cura di Maria Biviglia e Elena Laureti, presentazione di Paolo Franzese, Centro di ricerche Federico Frezzi, Spello 2011, pp. 138.

pagina interna di guardia: «Due ambienti: il Liceo Classico "Federico Frezzi" e la Sezione di Archivio di Stato in Foligno; un gruppo di ricercatori: sei studentesse, quattro studenti, un'insegnante, un'archivista di Stato; un domenicano, Federico Frezzi, vescovo di Foligno all'inizio del Quattrocento; un notaio, Francesco di Antonio, e gli atti da lui rogati per quel vescovo negli anni compresi tra il 1404 e il 1410: ecco gli 'ingredienti' di un laboratorio didattico svoltosi nell'anno scolastico 2009-2010. Il libro documenta quell'esperienza.

Il Centro di ricerche Federico Frezzi per lo studio della civiltà umanistica, è stato costituito giuridicamente nel maggio 2007 ed ha la propria sede nel Liceo Classico Foligno... ».

http://www.centrostudifrezzi.it/index.asp  |  info@centrostudifrezzi.it

In pp. 35-108 i regesti 19.II.1404 - 28.I.1410.

Dono della sig.ra Laureti, dic. 2011. E congratulazione per il diretto coinvolgimento degli studenti liceali!

Memorie OP. Per luogo s'intenda sempre Foligno, se non detto altrimenti.

- il nome del vescovo folignate è quasi sempre Fredericus (il che avalla filologicamente la contrazione del patronimico in di Frezzo, ovvero Frederico figlio di Frezzo).

- frater Franciscus Andree de Mevanea OP, 13 e 17.III.1404 (pp. 36-37); ritorna altre volte.

- fr. Petrus Antonius Cagni de Rasilia OP, 21.IV.1404 (p. 40).

- 25.IV.1404: i canonici della chiesa maggiore di Foligno, riuniti in capitolo, alla presenza di Fredericus, vescovo di Foligno, uniscono l'ospedale «Sancle Marie Annumptiate loco Sancti Dominici Ordinis Predicatorum de Fulgineo  pro evidenti utilitale et necessario dictorum loci Sancti Dominici et bospitalis predicti» (p. 41).

- 6.V.1404: vescovo e canonici di Foligno ratificano l'unione dell'ospedale (ospizio) «Sancte Marie Annuptiate et Sancti Dominici Ordinis Predicatorum de Fulgineo» (p. 42). Testo integrale dell'atto in pp. 109-110.

- fr. Marinus Vannis de Scaffalibus de Fulgineo OP (de Scaffalibus, de villa Scaffalium comitatus Fulginei, pp. 69, 89, 92), conversus: 6.I.1405 (p. 48); 3.III.1405 (pp. 51-52); 7.XI.1405 (p. 57). Compare altre volte, talvolta semplicemente fr. Marinus de Fulgineo. Dev'esser un frate converso al servizio (socius, dicevano) del vescovo domenicano Federico.

- fr. Felicianus Dentis de Fulgineo OP, 13.XII.1405 (p. 58)

- 25.III.1406: «in loco ecclesie Sancti Dominici, videlicet in clausto [sic] novo, iuxta orticillum dicti loci, quod claustum positum in dicto loco iuxta dictum ortum et cameram factam in dicto loco per infrascriplum dominum episcopum» (p. 61). Molti altri atti episcopali sono tenuti «in loco Sancti Dominici» (cf. pp. 72-74: 1407)

- fr. Venantius Andree de Fulgineo OP, 9 .VI.1407 (p. 75); 28.III.1408 (p. 84).

- fr. Michael de Eugubio OP, 28.III.1408 (p. 84).

- 17.IV.1408: Testimoni: «frater Venantius Andree de Fulgineo Ordinis Predicatorum, frater Franciscus Andree de Mevanea, frater Benedictus Petri de Urbe Vetere dicti Ordinis» (p. 84).

- 6.I.1409: frater Benedictus Petri de Urbe Vetere prior loci Sancti Iacobi de Mevanea (p. 97, è soltanto teste)

- sistema cronologico è quello a nativitate (cf. pp. 109-112).

F. BETTONI - R. MARCONI, Statuti dell'Officio delli damni dati di Rasiglia. Danni, pene e ammende tra i monti di  Foligno, Edizioni Orfini Numeister (Foligno) 2011, pp. 209; con integrale riproduzione fotografica degli statuti originali (secondo Quattrocento) e sua integrale trascrizione (pp. 161-99).

(p. 18) «Tra i materiali appena segnalati, è giunto fino a noi anche un manoscritto la cui stesura si colloca in quel laborioso Quattrocento, intitolato Statuto di Rasiglia e precisamente un insieme di rubriche recanti gli Statuti dell'officio delli damni dati della Università dellu Sindicato del castello de Rasiglia. Questo testo ha costituito l'occasione del nostro lavoro e Renzo Marconi lo presenta nelle pagine seguenti. A quel che sembra, il documento (qui riprodotto in facsimile) presenta per buona parte un carattere generale, pare riferirsi cioè ad una casistica che riguarda l'insieme del territorio folignate, facendo diretta menzione di Rasiglia solo in un numero di rubriche assai ristretto».

(p. 24) «Rasiglia dista dalla piazza centrale di Foligno 19 chilometri; al 31 dicembre del 2010, vi si contavano 64 abitanti che formavano 39 famiglie. Chi viene dalla città capoluogo, oltrepassate le frazioni Ponte Santa Lucia, Scopoli, Leggiana e Casenove, deve attraversare Serrone – per meglio dire, la galleria di Castel San Felice ai bordi di Serrone – e inoltrarsi nel mezzo di rilievi macchiosi costeggiando il fiume Menotre. Giunto a Rasiglia, il viaggiatore coglie immediatamente la suggestione derivante da un centro abitato sorto a ridosso di un colle, che sale con armoniosa ma serrata sequenza alla quota di 636 metri sul livello del mare. In alto la parrocchiale di San Pietro, una costruzione della prima metà del Settecento, e poco sopra a destra Capo Vena, rigogliosa risorgiva che arricchisce il Menotre di altra acqua. All'opposto, chi viene dalla Valnerina, ha risalito la valle del Vigi, ha toccato Sellano, ha superato Lu Soju, ha oltrepassato il ponte San Lazzaro, e, giunto in prossimità del ponte San Martino, è entrato nella Valle del Menotre, gode via via della vista di un piano meno angusto, con radure prative, finché, approssimandosi a Rasiglia, è attratto dalla visione di ciò che resta della sua rocca medievale».

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