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(... 15. Impasto mediolatino/volgare fiorentino)
(Moffla/Ghant = Gand)

Per evitare comunque una sopravvalutazione quantitativa delle scritture anomale o fluttuanti o di volgarismi, va detto che la vasta produzione letteraria del frate fiorentino mostra un sistema linguistico consolidato, che nel suo insieme si mantiene costante, dalla grafia alla morfologia alla sintassi, in tutti i codici di cui sopra; mentre la presente ricognizione punta a individuare le fasce mobili o anomale del sistema linguistico. E se si tien conto dell’inesistenza d’istituzioni pubbliche centrali che inducessero uniformità linguistica nel mediolatino, lo strato mobile della lingua di Remigio è dopotutto relativamente esiguo; probabilmente non di gran lunga superiore a quello riscontrabile entro la produzione d’uno scrittore italiano a noi contemporaneo se si recensissero sistematicamente varianti nella grafia, preferenze tra scritture latinizzanti e ‘volgari’, uso dell’elisione e dell’apocope, flessioni nominali, alternanze di forme verbali (perfetto forte e debole, ad esempio), reggenze preposizionali, dipendenze sintattiche, uso dei segni d’interpunzione, degli accenti, delle virgolette, sistema delle citazioni ecc. Del resto se in taluni casi le fluttuazioni grafiche non sono pervenute a un esito stabile, altrove - come vedremo subito - Remigio ha fissato forme grafologiche che risultano uniformi e costanti. La revisione delle opere negli anni 1314-1316, in occasione della loro trascrizione, potrebbe aver operato a favore di un’uniformità e consolidamento d’ampie proporzioni del sistema linguistico se il lettore può scorrere pagine e pagine senza imbattersi in peculiarità o difformità degne di commento filologico. Inoltre - e la cosa mi pare di qualche interesse per la trasmissione del testo - si ricava l’impressione che sia il fondo costante che lo strato mobile della lingua compaiano in ugual misura e nelle sezioni autografe di scrittura e in quelle dei copisti A, X, Y, Z: come dire che i copisti nell’atto della trascrizione non devono essersi prese molte libertà né hanno normalizzato secondo i propri canoni grafologici il dettato di Remigio. Costui del resto mostra chiara consapevolezza del proprio sistema grafologico: le sviste degli amanuensi e gl’interventi correttivi di mano B testimoniano scelte positivamente intese dall’autore. Basta scorrere le edizioni che descrivano in apparato tutti gl’incidenti di copia e di correzione per constatare che mano B estende i propri interventi anche su minute correzioni grafiche, anche d’una sola lettera. Un solo esempio puntato su h, un grafema peraltro che, perduto il sostegno fonetico nelle aree linguistiche romanze, occupava una posizione fragile nella grafia mediolatina. Hetnicus, oram, exibere, exortare, ystoriographus scrive A (Contra fals. 78,181; cod. D, L 77va, f. 97rb, 98ra ... ), abundanter scrive P (BNP f. 208ra); mano B interviene, inserisce in interlinea h e restituisce i propri grafemi costanti hethnicus, horam, exhibere, exhortare, hystoriograpbus e habundanter (forma mediolatina ipercorretta ma costante per supposta derivazione da habere); exibeat persiste in Quol. I,4,76. All’opposto mathica scrive X (Div. sc. 20,18), hedificium scrive A (cod. D, f. 98ra): un punto soscritto espunge h e restituisce matica e edificium. Nel caso di quest’ultimo la scrittura aspirata si trova cinque volte in una sola colonna (cod. D, f. 98ra), il che non può essere imputabile a errore di copia; l’esemplare doveva portare h, ma nel testo rivisto e corretto di cod. D la h è sistematicamente espunta. La medesima cosa, in senso contrario, accade per ostia (= hostia: vittima, sacrificio) scritto quattro volte senza h nello spazio di cinque righe nel corso d’una brevissima extractio questionis di cod. G3, f. 110ra; mano B restituisce sistematicamente hostia inserendo h in soprarrigo. La conclusione s’impone: Remigio scriveva a suo tempo, o gli capitava di scrivere, hedificium e ostia; nei codici rifiniti e destinati a pubblico uso («edidit» dicono alcuni esplicit e la Cronica di SMN) fissa edificium e hostia.

L’insidiosa dissimilazione consonantica delle liquide l e r, comune al mediolatino e ai volgari romanzi, attira una nota grafologico-semantica di Remigio:

«Nota quod debet dici fragrantia per r, idest redolentia; unde verbum flagrantia facit ardorem, sed fragrantia designat odorem» (Postille f. 223rb); sebbene lo spunto gli possa venire dal Graecismus XV, 69 di Eberardo da Béthune: «Fla facit ardorem sed fra designat odorem» (ed. J. Wrobel, p. 154).

Del volgare dell’alto Lazio si segnala la palatizzazione della l: «Viterbienses dicunt “juna” et “moino” pro luna et molino» (cod. D, f. 280r, mg. s., B: Studio 240 rr. 153-54). Mentre per il caratteristico suono fricativo prepalatale sonoro della g intervocalica del volgare toscano (stagione = ž) si offre la ben documentata grafia dimostrativa sg: busgia, busgiardo, rasgionato (cod. G4, f. 407rb-va) (cf. B. MIGLIORINI, Storia della lingua italiana, Firenze 1971, 269; CASTELLANI, Nuovi testi 18. 31-33). Nel sermone in morte del legista Manno ci s’intrattiene sul genere e desinenza degli antroponimi fiorentini: alcune desinenze, come quelle in -o e -i, sono di genere maschile - si dice - e convengono a nomi di uomini, quali Piero e Iacopo, Vieri e Tieri; altre, in -a, sono di genere femminile, quali Iovanna, Iacopa; altre, in -e, sono d’ambo i generi, quali Bene e Gentile. Talvolta però la desinenza in -a può denotare un antroponimo maschile, come Elcana, Paniccia, Farinata... (cod. G4, ff. 402vb-403rb) (per l’antroponimia fiorentina del Due-Trecento Cf. O. Brattö, Studi di antroponimia fiorentina, Göteborg 1953; ID., Nuovi studi d’antroponimia fiorentina, Stockholm 1955; vedi esempi in BOCCADIBUE passim). In De pecc. us. 624,2-8 si annota accento e genere:

«Quarto quantum ad usum loquentium, et sic “benefacit” producta penultima est proprie dictum, cum tamen “facio” habeat primam brevem. Et simille contingit in pluribus vulgaribus et quantum ad genus masculinum vel femininum et quantum ad breviationem et longationern sillabarum. In vulgari enim gallico “dens” est generis feminini et “copia” producit penultimam, et in florentino “ordo” est generis ferninini et “Agatha” producit penultimam» (qui l’ed. è scorretta al punto da compromettere il senso).

V. Väänänen, Introduction au latin vulgaire, Paris 1981, 32: tendenza a riportare l'accento tonico sulla radicale nei verbi compositi (benefàcit). «Per altra ordine», «ordini angeliche», dice Giordano da Pisa (Quaresimale fiorentino 24/156, 370/73, 498-99).

Come già segnalato altrove, Remigio conta ventitre lettere d’alfabeto nel suo latino, e ne fa coerente uso quale criterio d’ordine negli strumenti di consultazione: nell’indice alfabetico dei santi “non solenni” del santorale cod. D, nelle Distinctiones e nel repertorio, anch’esso alfabetico, dei lemmi teologici della tavola annessa all’Extractio questionum per alphabetum di cod. G3:

a  b  c  d  e  f  g  h  i  k  1  m  n  o  p  q  r  s  t  u  x  y  ç

(cf. Il Repertorio, MD 11 (1980) 643-44; Un’introduzione, MD 12 (1981) 31-32; Studio 271-83; per l’uso dell’alfabeto come criterio d’ordinamento in strumenti di consultazione nel XIII secolo vedi: R.H. e M.A. ROUSE, Preachers, Florilegia and Sermons: Studies on the ‘Manipulus florum’ of Thomas of Ireland, Toronto 1979, 34-36 e passim).

Bisogna aggiungere, nel discorso dell’equipaggiamento filologico, che Remigio non conosce né ebraico né greco. Le derivationes dall’ebraico e dal greco - spesso deformate graficamente e semanticamente - gli arrivano tramite strumenti comuni e di facile accesso all’intellettuale del tempo: Glossa biblica, testi patristici, Etymologiae d’Isidoro da Siviglia, rifacimenti e ampliamenti nel XII-XIII secolo del Liber interpretationis bebraicorum nominum di san Girolamo, quale quello molto diffuso, e che si ritrova in calce alle bibbie medievali, attribuito a Stefano Langton († 1228), opere lessicografiche di Papia il Lombardo, Uguccione da Pisa, Eberardo da Béthune, Guglielmo il Bretone, traduzioni greco-latine delle opere d’Aristotele, Dionigi Areopagita, Giovanni Damasceno, e glosse o commenti alle medesime. Mentre ci sono buoni indizi per pensare che Remigio - che aveva trascorso due lunghi periodi a Parigi - avesse appreso il volgare francese. Ben conosciuto è il testo del De bono comuni (28,11-14) in cui ironizzando sulla pronuncia cittadina «Firençe» («Fiorença» per gli estranei) dice che i francesi al sentore di puzzo si otturano il naso e fanno «fi fi». E or ora si è riportato il brano dal De pecc. us. in cui si annota che «dens» è di genere femminile nel volgare gallico. Altrove sono documentati brevi interventi in volgare francese: «rogge idest rubeus secundum linguam gallicam» (Sermoni LI). «Exemplum de Gallicis qui comuniter in vulgari vocant patrem dominum suum scilicet monsegnor, et matrem dominam suam scilicet madame» (De via par. f. 266va). E sempre nel De via paradisi si racconta per esteso un’arguta storiella. L’arguzia è chiusa nella battuta finale; la scioglie chi sa il volgare francese.

Moffla

Ghant

«Unde dicitur quod quidam magnus prelatus in Francia erat multum familiaris uni demoni, a quo multa bona temporalia et prospera consecutus, semel instanter petivit ab eo de loco sue mortis ut ipsum fugere posset. Qui respondit quod si posset declinare quandam terram nomine Moffla, numquam moreretur. Qui diligenter attendens si aliqua sic vocaretur et nullam inveniens, securus vivebat. Tandem pervenit ad quandam terram Gandavum nomine, que in vulgari gallico vocatur Ghant, in qua infirmatus est, et medicis desperatis advocavit demonem petens ab eo si moreretur; quo respondente quod sic, et prelato increpante et redarguente mendacii subdidit demon: “Moffla et Ghant ce est tout un”» (cod. C, f. 218rb).

Un prelato francese d'alto rango pregò un demonio, col quale intratteneva buoni rapporti, di rivelargli il luogo della propria morte per poterne stare lontano. Il demonio gli disse: «Tieniti lontano dalla città di Moffla, e non vedrai mai la morte!». «Una città di nome Moffla? - si disse il prelato -; ma non esiste!». E si mise l’animo in pace. Una volta pervenne a una città chiamata Ghant in volgare gallico, e lì cadde malato senza speranza alcuna, a giudizio dei medici. Si rivolse allora al demonio e gli chiese se doveva veramente morire. «Sì», gli disse costui. Il prelato protestò per l'inganno subìto, ma il demonio soggiunse: «Moffla (mouffle) e Ghant (gant) è la medesima cosa!».

«Moffla et Ghant ce est tout un»: "le mouffle" = guanto (gant!); per lo più di lana senza diti, salvo il pollice. B. Krings, Das Ordensrecht der Prämonstratenser vom späten 12. Jahrhundert bis zum Jahr 1227, «Analecta Praemonstratensia» 69 (1993) 192 (De vestitu): «Mufflas de panno foratas pelle, sustinemus haberi pro frigore repellendo, et mufflas de corio spisso tantummodo in labore». «Dictionnaire d'histoire et de géographie ecclésiastique» 19 (1981) 1005-1058.

J.G.Th. Graesse - F. Benedict, Orbis latinus, Berlin 1922, 133: "Gantum, Ganda, Gandavum, Canda": Gent (Gand), oggi in Oost-Vlaanderen, Fiandra belga. G.-G. Meersseman, AFP 17 (1947) 5-40 (istallazioni domenicane nelle Fiandre, cartina in p. 17).

Gand/Gent sonava guanto su bocche toscane. Dante, Purg. XX, 46: «Ma se Doagio, Lilla, Guanto e Bruggia», rispettivamente Douai, Lille, Gand e Bruges. Villani [† 1348], Nuova cronica IX, 20, 31 «poi n'andò a Guanto, però che Bruggia non era forte…», e molte altre volte (vol. II, 39-40, 862).

A. Castellani, Capitoli d’un’introduzione alla grammatica storica italiana. II: L’elemento germanico, «Studi linguistici italiani» 11 (1985) p. 180: "guanto/Want".

... e il toponimo fiorentino "Via Osteria del Guanto", traversa di Via dei Neri, a quale radice linguistica rimonta? Antica residenza della natio gandensis? mercanti e pellegrini di Gand che facevano sosta in Firenze - penso tra me e me. Ho provato a chiederlo agli attuali abitanti della Via; sorridono e mi rispondono "O guanto che significa? guanto, noh!", ed esibiscono le mani!

http://it.wikipedia.org/wiki/Gand

Ma nell’insieme, la preparazione filologica di Remigio non va oltre quella comune dell’intellettuale della schola del suo tempo, dall’attività prevalentemente riflessivo-teoretica. I limiti, nel settore filologico, sono segnati dalle sue stesse fonti principali: Etymologiae d’Isidoro, Elementarium (1040-50) di Papia il Lombardo, Derivationes (1192-1200) d’Uguccione da Pisa, cui si può aggiungere il Graecismus (fine XII - inizio XIII sec.) di Eberardo da Béthune e l’Expositiones vocabulorum biblie (1250-70) di Guglielmo il Bretone. Nel De subiecto theologie (rr. 398.401) si ha più volte intentio nel senso di intensio; la giustificazione è data altrove, e Remigio dà prova di non disporre di conoscenze linguistiche e di fonti letterarie oltre quelle d’un Uguccione: «... licet secundum usum loquendi, qui in talibus observandus est, non dicatur “intentio” sed “intensio”, ut patet per Philosophum in pluribus locis. Quamvis enim hoc verbum “intendo” habeat utrumque suppinum, scilicet intentum et intensum, tamen in ista significatione acceptum facit suppinum “intensum’, ut dicit Huguiccio» (De modis rerum f. 37va; cf. Uguccione, Derivationes II, 1205 § 9). Ma grave è l’atteggiamento, si direbbe, fideistico davanti a problemi di critica testuale, quando altrove - nella speculazione filosofico-teologica, ad esempio - si dà prova d’audacia intellettuale; un fideismo propiziato dalla sprovvedutezza filologica. Il caso può essere ampiamente illustrato nei riguardi del testo biblico della Volgata. Se Remigio fa frequente uso di lezioni alternative («alia litera», «alia translatio»... ) - che trovava a portata di mano ai margini della propria bibbia, nei correctoria o nelle fonti comuni quali la Glossa ecc. - dall’altra parte dà l’impressione di non poter ammettere (né forse ne intravvedeva il meccanismo) corruzioni nella trasmissione del testo, tanto meno falle nella traduzione. «Sermonem quem audistis non est meus» di Io. 14,24 potrà risultare «incongruus» secondo la grammatica di Donato e di Prisciano (che vorrebbe «sermo»), non secondo la «grammatica di Dio» (Contra fals. 2,13-22). E s’invoca il celebre brano del prologo ai Moralia di Gregorio Magno: «È indegno costringere le parole dell’oracolo celeste entro le regole di Donato» (ib. 2,24-26; cod. G4, f. 302ra). Il sibillino «illic advocare» di Eccli. 32,15 è difeso, contro chi volesse emendare in «illic advoca», con un generico ricorso alla «gramatica antiqua» (cod. G4, f. 362rb: Studio 202; cod. G4, f. 302rb) (Cf. UGO DA SAN CARO, Postille in Eccli. 32,15: vel advocare «deponens secundum antiquam grammaticam, idest advocatus esto contra teipsum...»: ed. Venetiis 1703, vol. III, f. 234va).

È vero che talvolta si trova a respingere emendazioni, prevalentemente di congettura, che peccavano della medesima ingenuità nei riguardi della critica del testo. Chi voleva emendare «Cumque revertissent» di Dan. 13,14 in «Cumque reversi essent» non mostrava se intendesse ricostituire la lezione originale della Volgata con l’ausilio d’una testimonianza manoscritta o se emendasse sulla base d’un modello di norme morfologiche remote al dettato latino della Volgata (cf. cod. G4, f. 302rb). Eppure i contributi d’uno Stefano Langton, d’un Ruggero Bacone, d’un Ugo da San Caro e sua équipe di Saint-Jacques, d’un Guglielmo de la Mare, ai primi elementi di critica del testo biblico potevano temperare l’imbarazzo d’un Remigio - come d’altri al pari di lui - di fronte ai problemi della restituzione del testo (cf. S. Timpanaro, La genesi del metodo del Lachmann, Padova 1985). Il caso di Sap. 9,4 intrattiene più a lungo l’autore e permette di cogliere meglio l’attitudine di costui di fronte ai problemi di critica testuale. «Da michi, Domine, sedium tuarum assistricem sapientiam» è il testo di Sap. 9,4 riportato da Remigio (l’edizione critica della Volgata ha: «Da mihi sedium tuarum adsistricem sapientiam»: vol. XII, Roma 1964, p. 55; «Donne-moi celle qui partage ton trône, la Sagesse», traduce la Bible de Jérusalem). Remigio commenta: sebbene una sia la «sede della maestà divina in forza d’una sola essenza, tuttavia i sedenti sono molteplici in forza delle persone divine», cosicché «sedium» può esser glossato «idest sedentium»; oppure, e meglio, il plurale può essere inteso al singolare «idest “sedis tue’». E sotto la scorta d’una veneranda tradizione esegetica, l’esito risulta non indecoroso per uno scolastico e gli strumenti filologici di cui disponeva. Ma segue poi una discussione che si sposta dal terreno dell’esegesi a quello della critica del testo. Uguccione da Pisa aveva sostenuto nelle Derivationes «Assistrix -cis idest astitrix ab asistendo» (cf. Uguccione, Derivationes, ed. Firenze 2004, II, 102). Sfruttando il suggerimento di quest’ultimo, il francescano Guglielmo il Bretone, nelle Expositiones vocabulorum biblie (1250-70), aveva proposto d’emendare assistricem di Sap. 9,4 in astitricem argomentando che sisto e composti non hanno né preterito né supino da cui trarre il sostantivo verbale assistrix (il quale «nichil est»), mentre astitrix è derivabile da asto -as (ed. L.W. Daly and B.A. Daly, Padova 1975, I, 67-68). Remigio respinge drasticamente la proposta d’emendazione ma rifugge dal misurarsi con le ragioni grammaticali di Guglielmo, né d’altronde contesta l’emendazione col ricorso alla testimonianza della tradizione del testo, che pure gli dava ragione. Detto che Uguccione «salva gratia sua hic minus sapienter dixit» e che Guglielmo il Bretone «eum sequendo insipienter britoniçavit», ripiega in un’argomentazione d’evasione, quasi una confessione di fideismo nei confronti del testo biblico:

«Si enim [“assistrix”] non potest formari a preterito vel a supino verbi, secundum gramaticam Prisciani vel Donati, formetur a presenti scilicet ab “assisto”, vel potius remaneat informatum secundum gramaticam Dei. “Indignum enim vehementer existimo ut verba celestis oraculi restringam sub regulis Donati”, ut dicit Gregorius in prologo Moralium. Temerarius namque reputari deberet qui vellet distinctionem illam a doctoribus approbatam ex longa consuetudine, qua dicunt quod est “opus operans” et “opus operatum”, reprebendere, quia secundum Donatum et Priscianum “operor” est deponens et non verbum comune... » (cod. G4, f. 302ra-b: testi in Il De subiecto theologie, Append. b rr. 124-37).

Vero è che poi assai coraggiosamente rivendica a nuove forme di pensiero il diritto di nuove forme di linguaggio:

«Quinimmo cum gramatica sit inferior omni alia scientia quasi omnium famula, nulla alia scientia astringitur quin possit formare nova vocabula et sub aliis accentibus, quam sicut in comuni gramatica approbata, ad magis exprimendum suam intentionem. “Oportet enim figere nomina’, sicut dicit Philosophus in Predicamentorum » (ib. rr. 148-53).

Ma perché non prendere sul serio e sul medesimo terreno le istanze della scienza grammaticale, quando questa da tempo era stata introdotta con profitto a servizio dell’intelligenza critica del linguaggio della bibbia e della fede espresso nel linguaggio dell’uomo? Il grammatico Donato aveva già ricondotto il virgiliano «Urbem quam statuo vestra est, subducite naves» (Aen. I,573) alla teoria grammaticale del solecismo nella flessione dei casi (Ars grammatica III,2: ed. L. Holtz, Paris 1981, 656 r. 15); e Sedulio Scoto - per fare un solo esempio - vi aveva trovato congrua interpretazione del solecismo della volgata nel caso di Io. 14,24: «Per casus [scil. fiunt soloecismi], sicut “Urbem quam statuo vestra est, subducite naves”, pro “Urbs”. Posuit accusativum pro nominativo. Et tale illud in evangelio [Io. 14,24]: et sermonem quem audistis pro eo quod est “sermo quem audistis”. Nam tertia persona, quod dicitur “est”, non accusativurn sed nominativum desiderat, ut sit recta constructio “vestra est urbs quam statuo”, sed “urbem” propter metricam necessitatem, ut versus stare queat, composuit» (SEDULIO SCOTO, In Donati Artem maiorem III: ed. B. Löfstedt, «Corpus Christianorum» Mediaev. 40 B, p. 343 rr. 90-97).

V. Väänänen, Introduction au latin vulgaire, Paris 1981, 160-61, sull'attrazione del relativo. Annoto che Papias, Bricto e Ughuccio erano registrati nell’antico inventario, metà XIV secolo, della biblioteca di SMN (POMARO, Censimento I, 327).

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