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(... III - Il contesto letterario,  6. De bono comuni)

7. Contesto dell’illiceità dell’uccisione per difetto di circostanza “quid” (cod. C, ff. 277va-279va).

De via paradisi V, 4

La via del paradiso V, 4

originale latino

volgarizzamento (2008) di EP

Item si ipsemet qui est persona publica sit malefactor, non licet se ipsum occidere, sicut patet per Augustinum in I De civitate Dei. Et hoc apparet ad presens quintuplici ratione.

Qualora il malfattore fosse lo stesso ufficiale pubblico, non è lecito a costui uccidersi, come risulta da sant'Agostino, La città di Dio I, 20. Cinque le ragioni.

Primo quia hoc est contra inclinationem seu legem naturalem. Quelibet enim res ex naturali amore quem habet ad se ipsam naturaliter se ipsam conservat in esse et corrumpentibus resistit quantum potest; esse enim omnibus est appetibile, secundum Philosophum in IX Ethicorum, et nullus potest appetere non esse, secundum beatum Augustinum in libro III De libero arbitrio[6]. Et quando non potest se conservare in esse individuali conatur se conservare saltem in esse speciei, secundum Philosophum in II De anima.

Prima ragione. Il suicidio è contro l'inclinazione o legge naturale. Ogni cosa, per amore naturale a se stessa, tende naturalmente a conservarsi in essere, e per quanto può resiste alle forze corruttive. L'esistenza infatti è a tutti desiderabile, secondo Aristotele, Etica nicomachea IX,9 (1170b 3-5); e nessuno può desiderare di non essere, a giudizio di sant'Agostino nel libro III di Il libero arbitrio. Quando poi non è in grado di conservarsi in essere come individuo, tende a conservarsi almento nell'essere della propria specie, sostiene Aristotele nel libro II Dell'anima.

Secundo quia est contra caritatem ex qua quilibet tenetur se ipsum diligere, quia in precepto caritatis dilectio sui ipsius ponitur principalis et quasi exemplar dilectionis proximi, cum dicitur «Diliges proximum tuum sicut te ipsum».

Seconda ragione. Il suicidio è contro la carità, in forza della quale ognuno è tenuto ad amarsi. Nel precetto della carità infatti l'amore di se stessi è posto per primo e a mo' di amore esemplare del prossimo, laddove si dice «Amerai il prossimo tuo come te stesso» (Luca 10,27).

Tertio quia est contra iustitiam. Quelibet enim pars id quod est totius est, cum extra totum non sit pars nisi equivoce, sicut diffusius ostendimus in tractatu De bono comuni. Quilibet autem homo particularis est pars comunitatis; unde in hoc quod se ipsum interficit iuniuriam comunitati facit[7], ut patet per Philosophum in V Ethicorum, qui subdit «Propter quod civitas dampnificat - scilicet sicut potest - et |278va| quedam inhonoratio adest se ipsum corrumpenti, ut civitati iniustum facienti», idest quasi ipse faciat iniuriam civitati, puta quia facit trahi cadaver eius vel iubet quod non sepeliatur vel aliquid tale (cod. C, f. 278rb-va).

Terza ragione. Il suicidio è contro la giustizia. L'essere di qualsiasi parte è il medesimo del tutto, visto che fuori del tutto la parte non si dà se non in senso equivoco, come diffusamente mostrato nel trattato Il bene comune. Qualsiasi individuo umano è parte della comunità, cosicché se uccide se stesso arreca ingiuria alla comunità politica, come appare in Aristotele, Etica nicomachea V,11. Il quale aggiunge (1138a 12-14): «Perciò la città lo punisce - secondo il possibile -, e |278va| vi è una qualche infamia per chi sopprime se stesso, in quanto commette ingiustizia rispetto alla città»; ossia arreca ingiuria alla città, poniamo perché la comunità deve provvedere al suo cadavero oppure disporre rifiuto di sepoltura, o cose simili (cod. C, f. 278rb-va).

[6] Cf. Quolibet II, 15: Utrum dampnati in inferno magis appetant non esse quam esse, MD 1983, 141-46, per la tesi e le autorità citate.

[7] Utilizza e adatta Tommaso d'Aquino, Summa theol. II-II, 64, 5: Utrum alicui liceat seipsum occidere.


Ma c’è il caso di chi si abbandona a morte volontaria sotto la mozione dello Spirito santo; così Sansone (con richiamo a De civitate I,21) e molte sante donne in tempo di persecuzione (ib. I, 26) (f. 278va; cf. Tomm., Summa theol. II-II, 64, 5 ad 4). E c’è il caso di suicidio per inganno diabolico (f. 278va-b), «sicut patet de peregrino lugdunensis territorii et de alio qui ad Sanctum Iacobum ibat» (f. 278vb). Poi:

De via paradisi V, 4

La via del paradiso V, 4

originale latino

volgarizzamento (2008) di EP

Item non licet ut miserias huius vite evadat quantecumque sint ille, quia ultimum malorum huius vite et maxime terribile est mors, ut patet per Philosophum in III Ethicorum. Et ita inferre sibi mortem ad alias huius vite miserias evadendas est maius malum assummere ad minoris mali evitationem[8].

Inoltre, non è lecito (il suicidio) al fine di evitare le miserie di questa vita, quali che siano, perché l'estremo male di questa vita ed il più terribile è appunto la morte, come risulta da Aristotele, Etica nicomachea III,9 (1115a 24-27). Cosicché infliggersi la morte allo scopo di evitare le miserie di questa vita, equivale a darsi un male maggiore per evitarne uno minore.

Exemplum de Catone qui tedio duplicis quartane interfecit se ipsum, ut narrat [sic]. Item exemplum de Achitophel, II Reg. 17[,23], qui videns spretum consilium suum utile suspendit se ipsum timens, ut dicit Magister in Hystoriis, ne incideret in manus David quem sciebat regnaturum. Item exemplum de multis in libro IX Valerii c. 12 qui interfecerunt se ipsos ne interficerentur per sententiam publice condempnationis (…).

Esempio di Catone, che per tedio della  doppia febbre quartana si tolse la vita, come narra [ . . . ]. Esempio di Achitofel, II Samulele 17,23, il quale visto che il proprio saggio consiglio era stato ignorato s'impiccò; temeva, scrive maestro Pietro il Comestore nella Storia scolastica, di cadere nelle mani di David, che sapeva ormai prossimo a regnare. Esempio di molti altri in Valerio Massimo, Factorum et dictorum memorabilium IX,12, che si uccisero per non subire la pena capitale da sentenza di pubblica condanna (…).

Item exemplum in c. 23 primi libri De civitate Dei de Catone de quo ibi dicit Augustinus sic: «Quid ergo, vir doctus et qui probus habebatur Cato, nisi quod filium quantum amavit, cui parci a Cesare et speravit et voluit, tantum glorie ipsius Cesaris, ut ab illo etiam sibi parceretur, ut ipse Cesar dixisse fertur, invidit, vel ut nos aliquid mitius dicamus, erubuit?»[9] (cod. C, f. 278vb).

Esempio di Catone in La cíttà di Dio I,23; scrive Agostino: «Che dire di Catone?, uomo dotto e onesto; tanto amò il figlio da sperarne e volerne il perdono da Cesare, quanto rifiutò la gloria del medesimo Cesare, o per parlare con maggior indulgenza, si vergognò d'esser perdonato da lui, come Cesare stesso ha tramandato» (cod. C, f. 278vb).

[8] Alla lettera da Tommaso d'Aq., Summa theol. II-II, 64, 5 ad 3.
ARIST., Ethica nicom.
III, 9 (1115a 24-27): «Circa qualia igitur terribilium fortis? Vel circa maxima; nullus enim magis sustinet pericula. Terribilissimum autem mors. Terminus enim, et nichil adhuc mortuis videtur neque bonum neque malum esse» (tr. pura e recogn.: AL 26, 191.421). Florilège
12, 56: «Terribilissimum omnium terribilium est mors». Cf. R. Hissette, Enquête sur les 219 articles condamnés à Paris le 7 mars 1277, Louvain-Paris 1977, 304-07: «213. Quod finis terribilium est mors. Error, si excludat inferni terrorem, qui extremus est». Ma Remigio qui attinge dalla Summa theologiae di Tomm. d'Aq., non dalla Sententia libri Ethicorum III, 14,123-31 (EL 47,161) né dalla Tabula libri Ethicorum M 393-94, che sembra stia alla base della proposizione condannata nel 1277: «Quod mors est finis terribilium et terribilissimus quia terminus» (EL 48, B 126).

[9] De civitate I, 23, 4-5. 21-24 (CCL 47, 24.25). Enrico da Gand, sulla scorta del medesimo testo d’Agostino, biasima Catone perché il suo suicidio mirava a schivare il «malum poenae»: Quodlibet I (1276), 20 (ed. R. Macken, Leiden 1979, 169-70).


Quando Remigio scriveva il De via paradisi non aveva dimenticato il De bono comuni; lo cita espressamente quattro volte (il quarto rimando sotto n° 8). Eppure molto è cambiato. De bono comuni c. 5 vuol provare che l’uomo, al meglio dell’espressione dell’amore razionale, è disposto a sacrificare qualcosa di sé, perfino la propria vita per il bene comune. Lo testimoniano gli esempi di quanti, mossi dall’amor patrio, avevano a cuore la res publica più delle loro stesse persone. Lucio Valerio, Quinto Cincinnato, Fabrizio, Marco Curzio, Zaleuco, Torquato, Marco Regolo, Codro, Catone l’Uticense. Fonti esplicite sono il De civitate Dei d’Agostino e il Factorum et dictorum memorabilium di Valerio Massimo. Quattro di costoro - Marco Curzio, Marco Regolo, Codro e Catone - si dettero la morte per il bene comune. Il De via paradisi espone la dottrina del comandamento divino «non occides»; e sulla scorta d’Agostino e di Tommaso d’Aquino, Remigio rientra nei ranghi. Darsi volontariamente la morte è suicidio. E l’amor patrio? e l’amor del bene comune? e Catone? Agostino non è ignorato in De bono comuni c. 5 sul caso Catone; ma come in tutto il capitolo le informazioni sull’amor rei publicae raccolte dal De civitate Dei sono sottratte alla sottile ritorsione cui le forzava l’alternativa della «città di Dio», così Remigio contiene al massimo, in parte tace, l’acuta analisi di De civitate Dei I, 23 sul suicidio di Catone l’Uticense. Riporta, da Agostino, che Catone s’era ucciso per invidia della vittoria di Cesare, o - se si vuol esser più benevoli - per vergogna d’impetrarne perdono; ma prima, facendo anonimamente appello a «ut aliqui opinantur» e in coerenza con l’impianto di tutto il c. 5, aveva avuto modo d’insinuare che Catone preferì uccidersi piuttosto che sopravvivere alla tirannia di Cesare. Catone, insieme agli altri personaggi, è modello esemplare della virtù politica «creaturarum habentium amorem rationalem», dell’amore cioè che prepone il bene comune al proprio, fino al sacrificio supremo di sé; al pari dei modelli del vecchio e nuovo testamento nonché della storia della santità cristiana (cc. 6-8).

M. Fubini (voce Catone l’Uticense, ED I, 877b) rinvia a Tomm., Summa theol., Suppl. 96, 6 ad 6 (= In IV Sent., d. 49, q. 5, a. 3, q.la 2) quale spunto per una probabile legittimazione teologica del suicidio di Catone; il testo, a mio parere, non offre aperture superiori a quelle di Summa theol. II-II,64, 5 ad 4; ambedue i testi muovono dal De civitate Dei I, 21 e 26 (caso di suicidio di Sansone e sante donne in tempo di persecuzione). La tesi è che ogni morte positivamente procurata a se stessi equivale a suicidio - anche quella della donna che si uccidesse per evitare lo stupro - ed è dunque riprovevole. Se Remigio avesse voluto, senza aggredire la tesi, legittimare teologicamente il suicidio di Catone per il bene comune a mo’ di quello di Sansone, non aveva che estendere all’eroe pagano la mozione divina o l’instinctus Spiritus sancti, sia pure «latenter», come ammette De civitate Dei I, 21; oppure estendere all’eroe pagano l’interna inspiratio di Dio sostenuta da Tommaso nel caso dell’uomo giusto che segue il «ductum naturalis rationis» benché non raggiunto dall’annuncio esplicito del vangelo (De veritate q. 14, a. 11 ad 1). Ma questo, Remigio non lo fa. Per altro verso la legittimazione della pena capitale pronunciata dalle autorità pubbliche soffre della debolezza intrinseca dell’argomento principe: come il medico recide il membro putrido per salvare tutto il corpo così le autorità pubbliche mandano a morte il cittadino iniquo per salvare il corpo sociale. Ma non si era asserito che il tutto integrale della società non è «ex partibus corporalibus directe et principaliter sed ex partibus rationalibus» (De bono comuni 18,196-97)? L’argomento risulta poco più che una similitudine, e di quelle che «non currunt quatuor pedibus», come lo stesso Remigio si esprime in altre occasioni. E se Aristotele aveva formalmente distinto il soggetto polis dal soggetto famiglia (Politica I, 1 ss.), l’etica dell’uomo-persona dall’etica dell’uomo-cittadino (ib. III, 4) perché la polis non è una famiglia allargata, lo scolastico aristotelico non avrebbe durato fatica a tener formalmente distinte le implicanze dialettiche tra tutto e parte del corpo umano (qui la parte non è sussistente) e quelle tra tutto e parte del corpo sociale (qui la parte, l’uomo-cittadino, è persona sussistente). Ma il dato scontato della pena capitale nelle pubbliche istituzioni, civili ed ecclesiastiche, era in cerca di legittimazione teorica presso l’intellettuale scolastico ortodosso, non certo di contestazione. Per riflesso se il cittadino iniquo può esser soppresso dalla società perché attenta al bene comune, quale danno costui arrecherebbe alla società se si desse la morte? Remigio sembra a corto d’argomenti: «puta quia facit trahi cadaver eius vel iubet quod non sepeliatur vel aliquid tale» (testo sopra § 1 n° 7).

Ch.T. Davis, Dante's Italy and other essays, Philadelphia 1984, per il confronto Dante, Remigio, Tolomeo da Lucca (priore in SMN di Firenze nel 1301-1302).

«Accedunt nunc ille sacratissime victime Deciorum, qui pro salute publica devotas animas posuerunt...; accedit et illud inenarrabile sacrificium severissimi vere libertatis auctoris Marci Catonis: quorum alteri pro salute patrie mortis tenebras non horruerunt; alter, ut mundo libertatis amores accenderet, quanti libertas esset ostendit dum e vita liber decedere maluit quam sine libertate manere in illa». Così Dante in Monarchia II v 15. E il richiamo è suggerito non soltanto dal caso Catone ma perché tutto il capitolo di Monarchia II v, e in parte quello parallelo di Convivio IV v, mostra una straordinaria similarità col c. 5 del De bono comuni del frate fiorentino: medesima prospettiva di valorizzazione delle virtù della romanità classica, quasi medesimi i personaggi esemplari evocati e le fonti, medesima la riorientazione dei prestiti da Agostino. «Si ergo... cuiuslibet societatis finis est comune sociorum bonum, necesse est finem cuiusque iuris bonum comune esse»: sono le battute d’inizio di Monarchia II v 2. Cui segue la ricognizione dei modelli esemplari: «De personis autem singularibus compendiose progrediar. Nunquid non bonum comune intendisse dicendi sunt qui sudore, qui paupertate, qui exilio, qui filiorum orbatione, qui amissione membrorum, qui denique animarum oblatione bonum publicum exaugere conati sunt? Nonne Cincinnatus...? Nonne Fabritius...?» (Monarchia II v 8 ss). «Quantum ad bona exteriora», «quantum ad bona membrorum corporis», «quantum ad bonum corporalis vite in personis coniunctis», «quantum ad bonum corporale vite proprie», aveva diviso Remigio. Ma Dante non avrà pentimenti dell’esaltazione di Catone, «vere libertatis auctor»; nel regno dell’aldilà lo riterrà salvo, lo porrà anzi a guardia del purgatorio. Il De via paradisi non soltanto non concede al suicidio di Catone le attenuanti invocate da Agostino, ma lo declassa a suicidio per tedio delle miserie di questa vita. Lo banalizza anzi a fuga dalla doppia febbre quartana! Benché la quartana, le moralitates l'avessero promossa a malattia dell'anima, l’invidia (Catone non aveva invidiato, a detta d’Agostino, la vittoria di Cesare?). Frigida e malinconica, la quartana, devastatrice del bene altrui: «Sed alie febres sunt in humoribus scilicet tertiana cui respondet luxuria... ; secunda est quartana que frigida est et malancolica, cui respondet invidia; per hanc enim homo frigescit in amore proximi» (Remigio, cod. G4, f. 228ra). «Item invenitur [febris] quartana, cui assimilatur invidia, ratione subiecti quia invidia principaliter est de humore idest de prosperitate alterius; unde de ipsa potest intelligi illud Dan. 7[,7] “Bestia quarta” quia scilicet totum bonum alterius vellet vastare» (cod. G4, f. 82va).

«Exemplum de Catone qui tedio duplicis quartane interfecit se ipsum, ut narrat». Così il testo, sospeso su indicazione della fonte, senza lacuna in bianco. Chi ha suggerito a Remigio la duplice quartana?

Nessuna traccia in sant’Agostino, il cui nome peraltro non è di quelli che il medievale usa coprire con la reticenza. Nell’enciclopedia del domenicano Vincenzo da Beauvais, Speculum historiale (1244 ca.), si legge: «Ipse Cato animas perpetuas esse aestimans, tandem taedio duplicis quartanae seipsum interfecit, ut meliorem vitam inveniret».

Speculum historiale V, 107 (ed. Douai 1629, 169b); altrove, se non è errore d’edizione, in asserto negativo: «non taedio duplicis quartanae se interfecit» (VI, 75: pp. 198-99). Il medesimo compilatore nella sezione medicina tratta della febbre quartana (Speculum doctrinale XIV, 14, ed. cit. col. 1291). Le moralitates care al medievale avevano operato il trapasso tra invidia e quartana; nello stesso Remigio si legge: «Sed alie febres sunt in humoribus scilicet tertiana cui respondet luxuria...; secunda est quartana que frigida est et malancolica. cui respondet invidia; per hanc enim homo frigescit in amore proximi» (cod. G4, f. 228ra). «ltem invenitur [febris] quartana, cui assimilatur invidia, ratione subiecti quia invidia principaliter est de humore idest de prosperitate alterius; unde de ipsa potest intelligi illud Dan. 7[,7] "Bestia quarta" quia scilicet totum bonum alterius vellet vastare» (cod. G4, f. 82va). Catone non aveva invidiato, secondo Agostino, la vittoria di Cesare?

Il testo di Vincenzo rende perfettamente ragione di quello di Remigio, sebbene vada ricordato che si prova direttamente l’indipendenza; mentre la dipendenza la si deduce per vie indirette, specie tramite incidenti redazionali o di copia. Gli studiosi di Remigio si sono spesso aggirati attorno allo Speculum, enciclopedia medievale d’ampia diffusione; ma dei casi di rinvio all’opera di Vincenzo, taluni sono da scartare in base alla collazione testuale, altri concorrono con altre fonti ugualmente, talvolta più probabili rispetto alle letture e biblioteca del frate fiorentino. Ma ecco il caso che prova (a meno che non si scopra un’improbabile terza fonte incorsa nel medesimo incidente nel medesimo luogo) l’utilizzazione dello Speculum historiale da parte di Remigio. Costui scrive nel santorale:

Unde et abbati Pachomio revelatum est, sicut Sygibertus refert, quod post se multi monachorum suam salutem perderent, maxime vero per negligentiam prepositorum; quibus primatum tenentibus ambitiosa lite quis eorum presit contendent, et reprobabuntur boni prepositi et mali eligentur, et tunc omnia pene, que divinis regulis subnixa sunt, humanis commutabuntur illecebris. Tunc Pachomius exclamans ad Dominum ait «Heu me!» etc. (cod. D, f . 321va).

Remigio ha letto Sigiberto da Gembloux († 1112)? Né la Cronica (ed. MGH, SS 6, pp. 300-74) né il De viris illustribus o De scriptoribus ecclesiasticis (ed. J.A. Fabricii, Bibliotheca ecclesiastica, Amburgo 1718, 93-115) di Sigiberto contiene quanto gli attribuisce il brano citato. Lo Speculum historiale XVIII, 47 «De sancto Abbate Pachomio» ha:

Sigibertus in chronicis. Anno Arcadii et Honorii 9. Pachomius Abbas 110 annum agens in virtutibus consummatur.

Ex gestis eius. Hic Pachomius docuit... Qui [Pachomius] per visionem a se factam edoctus est quod monasteria quidem multipliciter dilatarentur et nunnulli pie et continenter viverent, plurimi vero negligenter, suamque salutem perderent, maxime vero per negligentiam praepositorum; quibus primatum tenentibus, ambitiosa lite, quis eorum praesit, contenderent: reprobabuntur boni praepositi et mali eligentur, et tunc omnia pene, quae divinis regulis subnixa sunt, humanis comitabuntur illecebris. Tunc Pachomius exclamans ad Dominum ait: Heu me, quia frustra laboravi, si enim tam perversi erunt praepositi, qui futuri sunt eorum subditi, quales erunt? (ed. cit. p. 709).

Solo quanto il compilatore mette sotto il nome di Sigiberto si ritrova nelle opere di costui; quanto segue immediatamente sotto la rubrica Ex gestis eius è attinto altrove. Nel leggere lo Speculum bistoriale, Remigio è tratto in inganno dalla contiguità dei due brani e attribuisce a Sigiberto quanto Vincenzo rimette sotto la rubrica Ex gestis eius (fonti agiografiche di san Pacomio).

La duplice quartana, Remigio la raccoglie dall’enciclopedista Vincenzo de Beauvais. La caduta intellettuale dal De bono comuni al De via paradisi (composto dopo 1306-08, prima del 1314) è palese. Complice anche Tommaso d’Aquino, dai cui testi De via paradisi V, 2-4 intesse i propri asserti dottrinali; benché altrove il «magister meus  frater Thomas» avesse sospinto il frate fiorentino sulla strada del nuovo corso teologico. Latente, ma incoativamente operante, in De bono comuni c. 5 è l’intuizione che l’eroe pagano disposto a preporre il bene comune alla propria vita possa esser mosso dall’instinctus Spiritus sancti o dall’interna inspiratio di Dio, al riparo dunque dall’infamia di suicida. Come proporlo, altrimenti, tra gli exempla che corroborano, al pari di quelli della storia biblica e cristiana, la tesi principale del trattato? La dissoluzione politica di Firenze e l’urgenza della cronaca cittadina che alimentavano l’audacia del De bono comuni hanno allentato la presa. Remigio recede dal dar compiutezza teorica all’intravista acquisizione teologica. Eppure non si era sottratto alla compiacenza d’osare: «Hec autem ad presens ita dicta sint, quamvis forte aliquam calumpniam pati possint» (De bono comuni 11, 65-66).

giunta ott. '02. Thomas Waleys (fl. 1318-49; SOPMÆ IV, 401-08), Expositio in De civitate Dei I ,23: conosce e distingue: 1) Catone il Censore, 2) Catone l'Uticense, 3) Porcio Catone console, 4) Catone lo Stoico; di costui dice: «Cato ystoicus philosophus qui, secundum Eusebium, anno imperii Augusti xlj tedio duplicis quartane se ipsum interfecit sperans aliam vitam meliorem. Et credunt quidam quod iste Cato scripsit librum illum quem pueri parvuli in scolis discunt,qui liber Catonis appellatur; quod non potest esse quia liber ille compositus fuit post librum Lucani qui fuit circa tempus Neronis» (AGOP XIV.28c, f. 18rb-va).

8. Trattazione degli effetti nocivi della fornicazione.

De via paradisi VI, 26

La via del paradiso VI, 26

originale latino

volgarizzamento (2008) di EP

Quinto nociva est [scil. mechia] homini si referatur ad humanum cetum seu consortium. Bonum enim partis in quantum huiusmodi dependet a bono totius, ut diffuse ostensum est in tractatu De bono comuni. Igitur quod nocet congregationi, per consequens et nocet cuilibet in congregatione existenti. Sed fornicatio unius nocet toti congregationi; unde Apostolus I Cor. 5[,6-7] mandat corinthiis ut eiciant de congregatione sua illum corinthium fornicarium, quia «modicum fermentum - ut dicit - totam massam corrumpit; expurgate vetus fermentum», Glosa: «eiciendo eum qui corrumpit». Ergo et per consequens etiam ex hoc nocet sibi ipsi, sicut e contra bona congregatio utilis est etiam malo in congregatione existenti (cod. C, f. 297ra-b).

Quinto, l'adulterio è nocivo all'uomo inteso in quanto ceto o comunità umana. Il bene della parte in quanto tale dipende dal bene del tutto, come diffusamente mostrato nel trattato Il bene comune. Di conseguenza, quel che nuoce alla comunità, nuoce a ciascun membro della comunità. Ma la fornicazione o disordine sessuale di una sola persona nuoce a tutta la comunità; cosicché l'apostolo Paolo, I Corinzi 5,6-7, ordina ai corinzi di espellere dalla propria comunità quel corinzio adultero, oiuché «un po' di lievito - dice - fa fermentare tutta la pasta; togliete via il lievito vecchio»; Glossa: «espellendo colui che genera corruzione». Dunque e conseguentemente anche per questo nuoce a se stesso; come viceversa, una buona comunità risulta utile anche alla persona corrotta che vive nella comunità (cod. C, f. 297ra-b).

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