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Quolibet II,15

Questione quodlibetale II,15

originale latino

volgarizzamento (2008) di EP

Articulus 15 - Utrum dampnati in inferno magis appetant non esse quam esse

Articolo 15 -  I dannati nell'inferno preferiscono non esistere anziché esistere?

Postea de homine quantum ad penam, utrum dampnati in inferno magis appetant non esse quam esse.

Poi circa l'essere umano, quanto alla pena: i dannati nell'inferno preferiscono non esistere anziché esistere?

Et videbitur quod sic, quia minus malum est magis eligendum quam maius malum. Sed dampnatis minus malum est non esse quam esse in pena gehenne, quia non esse opponitur bono nature quod est minus quam bonum gratie et adhuc minus quam bonum glorie cui opponitur gehenna. Semper autem maiori bono maius malum opponitur[1].

Argomento a favore del sì. Di norma si preferisce un male minore a uno maggiore. Ma per i dannati il minor male è non esistere anziché esistere nelle pene della geenna o inferno; il non essere infatti si oppone al bene di natura, che è minore rispetto al bene della grazia, e ancor minore rispetto al bene della gloria, cui si oppone la geenna. Sempre infatti a un maggior bene si oppone un maggior male.

Contra. Plus appetibile supponit appetibile; sed non esse non cadit in appetitu; ergo etc.

Argomento in contrario. Ciò che è più desiderabile suppone il desiderabile. Ma il non essere non è nell'inclinazione naturale o tra le cose desiderabili. Dunque eccetera.

Responsio. Nota hic quatuor: distinctionem, applicationem ad propositum, probationem applicationis et quandam contrarietatem inter beatum Augustinum in libro III De libero arbitrio et Philosophum in IX Ethicorum.

Risposta. Quattro punti da tener presenti: distinzione, applicazione alla nostra questione, prova dell'applicazione, disaccordo tra sant'Agostino in De libero arbitrio III ed Aristotele in Etica nicomachea IX.

Circa primum distingue de appetitu naturali vel deliberativo, de appetitu in comuni vel in particulari, sicut dicit Apostolus, Rom. 7, se facere malum, scilicet deliberative et in particulari, quod ipse non vult, scilicet appetitu naturali et in comuni vel generali. Item de appetendo per se vel per accidens, sicut peccator non appetit per se peccatum sed per accidens, scilicet ratione delectationis adiuncte. Item de appetendo directe vel indirecte, sicut iustus homo hostiliter |89vb| invasus appetit interficere invadentem non directe, quia odit homicidium, sed indirecte ratione oppositi, ne scilicet interficiatur ab eo; sicut David appetiit non confundi Absalonem directe quia filium diligebat sed appettiit indirecte ne confunderetur ab eo. Item de appetendo ordinate vel deordinate. Item de appetendo simpliciter et secundum quid, sicut homo iustus simpliciter appetit ieiunare, sed secundum quid non appetit in quantum molestatur in carne.

Primo punto. Distinguiamo tra appetito naturale (o inclinazione naturale) e appetito deliberativo, tra appetito in generale e appetito particolare. Paolo, ad esempio, in Romani 7,15-19, asserisce di compiere il male, ovvero per deliberazione e in caso particolare; cosa che egli non vuole, intendi per appetito naturale e generale. E distinguiamo tra inclinazione o desiderio in sé e inclinazione accidentale, così come chi commette peccato non vuole il peccato in sé ma accidentalmente ossia a motivo del piacere aggiunto. E distinguiamo inoltre tra inclinazione diretta e indiretta; una persona retta, ad esempio, che viene aggredita, |89vb| mira ad uccidere l'aggressore non principalmente perché odia l'omicidio, ma secondariamente, ossia perché non sia uccisa da lui; come David preferì che Assalonne non fosse umiliato espressamente (II Samuele cc. 18-19) perché amava il figlio, ma indirettamente, affinché egli stesso non ne uscisse umiliato. Medesima cosa quanto all'implulso o inclinazione ordinata e disordinata; quanto all'inclinazione assoluta e relativa, così come l'uomo giusto desidera in assoluto digiunare, ma in particolari condizioni non lo desidera a motivo di disagi fisici.

Circa secundum nota quod dampnati appetunt magis non esse quam esse appetitu deliberativo et in particulari et per accidens et indirecte, sed contrariis appetitibus magis appetunt [appetint cod.] esse. Sicut etiam in naturalibus quando in natura non cadit deliberatio visus appetit lucem per se sed odit eam ratione improportionis adiuncte. Et similiter gustus refugit vinum ratione fellis immixti vel bullitionis adiuncte. Similiter in civilibus aliquis refugit emere domum pulcherrimam ratione excedentis pretii vel male convicinie etc. Similiter Gallicus ille refugit esse amicus Dei ratione tribulationum, iuxta illud Eccli. 2[,1] «Fili accedens» etc. Similiter in artificialibus; eger sapiens refugit aquam frigidam ratione infirmitatis, et indirecte appetit [appetunt cod.] opposita, sicut dampnatus refugit esse ratione miserie adiuncte et appetit non esse ratione oppositi quod refugit.

Secondo punto. I dannati preferiscono non esistere anziché esistere in forza dell'inclinazione o implulso deliberativo, particolare, condizionale e indiretto; ma per contrari desideri preferiscono esistere. Come accade anche nelle cose naturali in assenza di deliberazione: la vista di suo cerca la luce, ma la odia in caso di sopraggiunta sproporzione. Parimenti il gusto rifugge dal vino a motivo dell'acidità o di sopravvenuta ebollizione. Parimenti nella vita civile uno rifugge dal comprare una bella abitazione perché eccessivamente cara o a motivo di cattivo vicinato, eccetera. Parimenti quel Gàllico rifuggì dall'amicizio con Dio a causa delle tribolazioni, come dice Ecclesiastico (Siràcide) 2,1 «Figlio, se ti presenti per servire il Signore, prepàrati alla tentazione», eccetera. Parimenti nelle cose frutto di lavoro umano: il malato saggio rifugge dall'acqua fredda per evitare malessere, e indirettamente desidera l'opposto; così come il dannato rifugge dall'esistenza a motivo dei patimenti aggiunti e desidera il non essere per opposizione polare a quanto rifugge.

Item dampnati appetunt non esse et refugiunt esse aliquo modo ordinate, quia propter miseriam pene, et aliquo modo deordinate, quia non propter miseriam culpe quam nollent carere cum sint obstinati. Malum autem culpe excedit in malitia malum pene. Unde homo virtuosus ne committat peccatum debet potius substinere omnem penam etiam mortem, etiam secundum Philosophum in IX Ethicorum.

I dannati dunque desiderano il non essere e rifuggono dall'esistenza in qualche modo coerentemente, ossia per disgrazia della pena; e per altro verso disordinatamente, perché non rifuggono per disgrazia della colpa, che non vogliono respingere perché ostinati nel male. Il male della colpa supera in cattiveria il male della pena. E infatti l'uomo vituoso per evitare il peccato deve piuttosto sostenere ogni tipo di pena, persino la morte, anche a giudizio di Aristotele, Etica nicomachea IX, 8 (1169a 18 ss).

Item |90ra| appetunt non esse simpliciter quia in particulari nullo addito; non quidem ex parte appetibilis, quia non esse non est simpliciter appetibile, sed simpliciter ex parte appetentis. Sicut peccator simpliciter loquendo vult peccatum, quia omne peccatum ita est voluntarium quod si non est voluntarium non est peccatum, sicut dicit Augustinus; licet non sit appetibile simpliciter. Nullus enim dicitur malus simpliciter nisi quia appetit malum simpliciter, quia etiam iustus appetit peccatum secundum quid, puta in quantum est delectabile carni. Et similiter malum pene licet non sit simpliciter appetibile tamen appetitur simpliciter, sicut ille qui vult aduri propter sanitatem et ille qui proicit merces in mare ingruente tempestate, sicut dicit Philosophus in III Ethicorum.

Inoltre i dannati |90ra| desiderano il non essere in assoluto, senza alcuna variante in particolare; e non in forza dell'oggetto desiderato, visto che di suo il non essere non è appetibile, ma in forza del soggetto desiderante. Così come il peccatore decide in senso assoluto di peccare, visto che ogni peccato è tale solo se volontario, come dice Agostino (De vera religione c. 14 § 27: PL 34, 133), quantunque non sia appetibile in sé. Nessuno infatti è ritenuto cattivo in sé se non perché vuole il male in sé, visto che anche l'uomo retto desidera il peccato relativamente, ad esempio in quanto fisicamente piacevole. Parimenti il male della pena, sebbene non desiderabile in assoluto, di fatto lo si desidera in sé: esempio, chi acconsente a combustioni per scopo terapeutico, o chi getta le merci in mare se la tempesta imperversa, come dice Aristotele in Etica nicomachea III,1 (1110a 8-9).

Circa tertium nota auctoritatem Domini, Mt. 26[,24], «Bonum erat illi si natus non fuisset homo ille». Et Glosa Ieronimi dicit super hoc: «Usitate et simpliciter dicitur: melius erat omnino non esse quam male esse»[2]. Et Proclus idem verbum dicit in libro De subsistentia mali, questione secunda, in qua inquirit utrum demones sint mali: «Melius - inquit - non esse omnino quam semper male esse»[3].
Ratione etiam triplici ad presens, scilicet ratione preponderationis in contrario obiecti et ratione corruptionis mali et ratione interfectionis sui.

Terzo punto. Autorità biblica, Matteo 26,24 «Sarebbe meglio per quell'uomo se non fosse mai nato!», chiosata da san Girolamo: «Comune e generale detto è: Meglio non esistere che male esistere». E pressoché lo stesso dice Proclo Diadoco Licio († 485), Dell'esistenza del male, questione seconda, laddove indaga se i demoni siano cattivi: «Meglio non esistere che essere eternamente nel male».
Tre le ragioni: prevalenza dell'oggetto rispetto al suo contrario, corruzione del male, sua imperfezione.

Quantum ad primum sciendum est quod obiectum appetitus formaliter non est esse sed bonum. Unicuique eligibile bonum et esse si bonum, ut dicitur in IX Ethicorum. Et ideo ubi contrarium bono idest malum preponderat bono in eadem re, illa res est magis fugibilis quam appetibilis, sicut contingit in actu fornicationis; et per consequens oppositum illius rei est magis appetibile. Ad eundem enim appetitum pertinet et naturaliter et moraliter loquendo appetere unum et fugere oppositum. Unde cum ipsi esse dampnatorum sit coniunctum summum malum pene, potius est fugibile quam appetibile, |90rb| et per consequens contrarium est magis appetibile.

Quanto alla prima ragione, l' oggetto dell'inclinazione o desiderio formalmente non è l'esistenza ma il bene. Ciascuno desidera il bene e l'esistenza nel bene, vuole Aristotele, Etica nicomachea IX,9 (1170b 3-5. 14-16). Dove dunque il contrario del bene, ovvero il male, prevale sul bene in una medesima cosa, questa è più da fuggire che da desiderare, come nel caso della fornicazione; e pertanto più desiderabile è il suo contrario. Alla medesima inclinazione appartiene per natura e per etica desiderare una cosa e rifuggire il suo contrario. E poiché all'esistenza stessa dei dannati è connesso il massimo male della pena, la cosa appare più da fuggire che da desiderare, |90rb| e per conseguenza più appetibile è il suo contrario.

Quantum ad secundum sciendum est quod secundum beatum Dyonisium, c. 4 De divinis nominibus, «bonum contingit ex una et integra causa, malum autem contingit ex particularibus defectibus»[4]. Unde modicus defectus in parte totum reddit simpliciter defectuosum; puta enormis turpitudo nasi totum hominem reddit simpliciter turpem, alias pulcherrimum. Et similiter contingit de egritudine. Et defectus unius circumstantie in moralibus totum actum facit simpliciter malum. In dampnatis igitur illud malum pene, et precipue quia summa est, totum statum dampnatorum facit simpliciter malum.

Seconda ragione, corruzione del male. È da sapere che, a detta di san Dionigi, Nomi divini c. 4 § 30, «il male deriva da molti particolari difetti, mentre il bene da una causa totale». Per cui un solo piccolo difetto rende diffettoso il tutto; un mostruoso naso, per esempio, rende indecoroso tutto l'uomo, o al contrario bellissimo. Stessa cosa in caso di malattia. Una sola manchevole circostanza negli atti morali rende immorale l'intero atto. Nei dannati dunque la pena dell'inferno, specie perché massima pena, rende negativo l'intero stato dei dannati.

Quantum ad tertium nota quod multi interficiunt se ipsos qui vel omnino non credunt aliam vitam vel, si credunt, tunc actu non cogitant, ut aliqui christiani desperati. Si enim tunc actu cogitarent non se interficerent, quia per mortem ad maiorem penam se ire scirent quam hic paterentur. Ergo isti tales simplicter malunt non esse quam esse.

Terzo punto, imperfezione del male. Molti si suicidono o perché non credono in un'altra vita, o se ci credono non ci pensano in quel momento, così come capita a taluni cristiani disperati. Se infatti in quel momento ci pensassero, non si suiciderebbero, consapevoli d'incorrere in pena superiore a quella patita in questo mondo. Costoro dunque preferiscono in senso assoluto di non esistere anziché esistere.

Circa quartum nota quod aliqui[5] curialiter loquentes, sicut decet, dicunt quod illa contrarietas inter Philosophum et Augustinum est tantum apparens, puta quia intentio utriusque non fertur ad idem sed secundum alium et alium appetitum seu motum appetendi. Augustinus dicit quod nullus, quantumcumque miser, potest appetere non esse, puta per se et directe et simpliciter ex parte appetentis. Et Philosophus dicit contrarium, puta scilicet per accidens[6] et indirecte et secundum quid.

Quarto punto, disaccordo tra Agostino e Aristotele. Taluni, con dovuto linguaggio diplomatico, dicono che il contrasto  tra Aristotele e Agostino è solo apparente, visto che non mirano al medesimo oggetto, ma a diversa inclinazione naturale o tipo di desiderio. Agostino asserisce che nessuno, per quanto infelice, può desiderare il non essere in senso assoluto e diretto, e da parte del soggetto. Aristotele invece dice il contrario, cioè solo accidentalmente e indirettamente.

Tamen, ut cum omni reverentia cuiuscumque loquar, Augustinus omnino videtur sentire quod non esse nullo modo potest cadere in appetitum; nec hoc umquam retractavit in libro Retractationum; quod quidem apparet et ex modo suo loquendi et etiam ex rationibus quas inducit. Dicit enim primo sic, ubi per intentionem incipit tractare de ista questione quasi loquens discipulo: «Si enim - inquit - quis dixerit “Non esse quam miserum esse me mallem” |90va| respondeo: Mentiris», idest contra mentem tuam dicis, quia hoc nullo appetis. Unde subdit: «Nam et nunc miser es nec ob aliud mori vis nisi ut sis; ita cum miser nolis esse, esse vis tamen».

Tuttavia  -  con tutto rispetto delle opinioni altrui  -  Agostino sembra veramente sostenere che il non essere non può rientrare nell'inclinazione naturale, posizione mai ritrattata nelle Ritrattazioni; cosa che traspare e dal suo modo d'esprimersi e dalle sue argomentazioni. Laddove inizia a trattare la questione, quasi rivolgendosi ad un alunno, dice anzitutto: «A chi dicesse "Preferisco la morte anziché miserevole vita" |90va|, gli risponderei: Stai mentendo», ovvero parli contro il tuo stesso sentire, ché di certo non è questo che desideri. Aggiunge infatti: «Ora tu sei infelice, e per null'altro vuoi morire se non per essere; non vuoi essere infelice, e tuttavia vuoi vivere» (De libero arbitrio III, 6 § 18: CCL 29, 286 rr. 8-12).

Et potest dici quod catholicus habens fidem formatam absque dubio vult mori ut sit, sed habens fidem informem non vult mori ut sit, cum suum esse sit miserius post mortem. Sed simpliciter vult non esse, licet illud non esse accipiat ut quoddam esse in quantum recedit a misero esse, sicut et carere malo est quoddam bonum, ut dicitur in V Ethicorum.

Si potrebbe dire: il cattolico dalla fede formata desidera certamente morire per essere; il cattolico dalla fede informe o incompleta non desidera morire per essere, visto che la sua esistenza sarebbe più infelice dopo morte. Vuole invece non essere in senso assoluto; sebbene quel "non essere" includa per lui una qualche esistenza perché recede da esistenza infelice; allo stesso modo che l'assenza del male è in qualche modo un bene, secondo Aristotele, Etica nicomachea V, 2 (1129b 8-9); V, 7 (1131b 20-22).

Et post: «Considera igitur, quantum potes, quod magnum bonum sit ipsum esse quod et beati et miseri volunt». Et post: «Si vis itaque miseriam fugere, ama in te hoc ipsum quod esse vis. Si enim magis magisque esse volueris, ei quod summe est propinquabis»; quasi dicat: Illud magis appetibile est quod est magis propinquum summo enti quod est Deus; sed hoc est magis esse quam non esse; ergo etc.

E continua Agostino: «Rifletti dunque sull'immenso valore dell'esistenza, voluta dai beati e dai miseri» (De libero arbitrio III, 7 § 20: CCL 29, 287 rr. 13-15). Poi: «Se vuoi fuggire dall'infelicità, ama in te stesso la medesima realtà che vuoi essere. E se desideri essere ancora molto di più, ti accosterai alla realtà somma» (III, 7 § 21: p. 287 rr. 20-22). Come dire: Tanto più una cosa è desiderabile quanto più è prossima alla somma realtà, che è Dio. Ma questo significa più essere che non essere. Dunque eccetera.

Et potest dici quod verum est per se et directe, sed non oportet quod sit verum per accidens et indirecte. Sicut sitibundo magis est appetibilis potus quam non potus per se et directe, tamen ratione amaritudinis vel fervoris vel veneni immixti appetit magis non potum [appetit magis non potum add. B mg. s.], sicut Christus sitibundus in cruce cum gustasset vinum felle mixtum noluit bibere.

Cosa vera in se stessa e direttamente, non necessariamente accidentalmente e indirettamente. Per l'assetato è più desiderabile bere che non bere in senso assoluto e direttamente; a motivo tuttavia di acidità o di bollitura o di veleno commisto, egli preferisce piuttosto non bere. Il Cristo, ad esempio, in croce aveva sete, ma sentito vino commisto con fiele rifiutò di bere.

Item post: «Omnia eo ipso quod sunt iure laudanda sunt, quia eo ipso quod sunt bona sunt».

Et dicendum similiter quia ratione adiuncti possunt esse mala.

E continua: «Tutte le cose sono giustamente lodevoli per il fatto stesso che esistono, perché buone a motivo della loro stessa esistenza» (De libero arbitrio III, 7 § 21: p. 287 rr. 25-26).

Medesimo commento, visto che le cose possono esser spregevoli per componenti sopraggiunti.

Et post: «Non ergo tibi displiceat immo maxime placeat quod magis vis esse vel miser quam propterea miser non esse quia nichil <eris>». Et post: «Illud vide quam absurde atque inconvenienter dicatur “Mallem non esse quam miser esse”. Qui enim dicit “Mallem hoc quam illud” eligit aliquid. Non esse autem non est aliquid sed nichil, et ideo nullo pacto potes recte eligere quando |90vb| quod eligas non est».

Et dicendum quod appetitus miseri accipit illud “nichil” tamquam aliquid, in quantum refugit illud aliquid quod est esse miserum.

Poi: «Non ti dispiaccia, sii anzi molto contento se preferisci esistere perfino infelice, anziché non essere infelice perché inesistente» (III, 7 § 21: p. 287 rr. 40-42). Inoltre: «È assurdo e sconveniente dichiarare "Meglio non esistere che essere infelice". Chi dice "Preferirei questo anziché quello" in fondo fa una scelta. L'inesistenza invece non è qualcosa ma nulla, e pertanto non fai in alcun modo saggia scelta quando |90vb| scegli l'inesistente» (III, 8 § 22: p. 288 rr. 1-5).

Risposta. La naturale inclinazione dell'infelice intende "nulla" come un qualcosa, in quanto rifugge da quel qualcosa che è esistenza infelice.

Et post: «Deinde quod quisque recte eligit appetendum, cum ad id pervenerit necesse est melior fiat», idest maius bonum assecutus sit. «Melior autem esse non poterit qui non erit. Nemo igitur recte potest eligere ut non sit».

Et dicendum quod appetitus miseri, sicut accipit carere malo tamquam bonum ita accipit carere peiori tamquam melius et carere summo malo tamquam optimum.

Poi: «Quando uno perviene a ciò che ha rettamente desiderato, diventa conseguentemente migliore», ovvero ha acquisito un bene superiore. «Chi non esiste, non è in grado di diventar migliore. E pertanto nessuno può rettamente scegliere di non esistere» (III, 8 § 22: p. 288 rr. 11-14).

Risposta. Il naturale desiderio della persona infelice, così come intende l'assenza di male come un qualche bene, parimenti intende l'assenza di male peggiore come bene superiore, e l'assenza del massimo male come ottimo bene.

Et post: «Cum ergo quisque credens quod post mortem non erit, intollerabilibus tamen molestiis ad totam cupiditatem mortis impellitur et decernit atque arripit mortem, in opinione habet errorem omnimode defectionis, in sensu autem naturale desiderium quietis. Quod autem quietum est non est nichil, immo etiam magis est quam illud quod inquietum est».

Poi: «Chiunque non crede ad un'esistenza dopo morte, è tuttavia spinto da intollerabili sofferenze al desiderio della morte, anzi la intravede e l'afferra. Nella sua mentale elaborazione costui sperimenta l'errore della fine; nella sua percezione sensitiva sperimenta un naturale desiderio di quiete, o pace interiore. La quiete non è il nulla, anzi è molto più del suo contrario inquietudine» (III, 8 § 23: p. 289 rr. 43-49).

Et dicendum quod appetitus miseri accipit carere inquietudine pro quadam quiete; vel per istum ultimum argumentum videtur intelligere de appetitu naturali et in comuni, non de appetitu deliberativo et in particulari.

Risposta. Il desiderio d'una persona infelice vive l'assenza d'inquietudine come una certa quiete. Oppure quest'ultimo argomento si riferisce all'inclinazione naturale e generale, non a quella deliberativa e particolare.

Ad argumentum igitur dicendum quod non esse, licet non sit appetibile simpliciter quantum est ex parte sui, tamen per accidens et indirecte appetitus potest ferri in ipsum simpliciter; sicut peccator, puta avarus, simpliciter appetit nummum tamquam Deum et tamquam finem et tamquam fruibile, cum tamen in se sit simpliciter creatura et ad finem et utibile[7]

Risposta all'argomento in contrario. Sebbene il non essere non sia desiderabile in se stesso, tuttavia accidentalmente e indirettamente il desiderio può portarsi su di esso in senso assoluto. Il peccatore, ad esempio l'avaro, desidera incondizionatamente il denaro come fosse il dio o il fine o la felicità, sebbene in se stesso sia realtà creata, e subordinata al fine e ai bisogni.

Et nichilominus dicendum quod bono glorie non solum opponitur pena summa sed etiam quecumque pena. Et iterum magis opponitur ei malum culpe quam malum pene, cum malum culpe sit peius quam malum pene. Et iterum malum culpe magis opponitur glorie quam gratie, quia cum gloria nec culpa etiam venialis stare potest, que tamen stat cum gratia. Item non solum non esse sed etiam quecumque pena opponitur bono nature, quia etiam voluntas quedam natura est.
Si autem tutius reputatur vel sequi vel exponere aliter Augustinum, placet michi.

Va aggiunto tuttavia che al bene della gloria si oppone non soltanto la pena estrema ma qualsiasi pena. E vi si oppone più il male della colpa che quello della pena, essendo la colpa più grave della pena. E a sua volta il male della colpa si oppone più alla gloria che alla grazia: con la gloria infatti non può coesistere neppure una colpa veniale, la quale invece può coesistere con la grazia. Inoltre al bene della natura si oppone non soltanto il non essere ma anche qualsiasi pena, visto che anche la facoltà volitiva fa parte della natura.
Qualora
inoltre si ritiene più sicuro o condividere o interpretare diversamente le posizioni di sant'Agostino, sono d'accordo.

Explicit quolibet fratris Remigii Florentini ordinis fratum Predicatorum apud Perusium in curia.

Fine del (secondo) quodlibeto di fra Remigio da Firenze, dell'ordine dei Predicatori, disputato nel convento domenicano di Perugia quando in quella città risiedeva (1304-1307) la curia romana.

finis est!

ωω


Art. II,15 -

[1] Quanto compendiato in questo paragrafo si legge nella soluzione di ENRICO DA GAND, Quodl. I (1276), 20 (Utrum magis eligendum sit non esse quam miserum esse), corp. (ed. Venetiis 1613, f. 30rb).

[2] Glossa ordin. in Mt. 26, 24 (Biblia, ed. Venetiis 1495, f. 1067va).

[3] PROCLO, De malorum subsistentia c. 4 § 17 rr. 7-8. Trad. di Guglielmo da Moerbeke (in PROCLI, Tria opuscula... ed. cit. p. 196; ).
Proclus,
Trois études sur la Providence. Texte établi et traduit par D. Isaac, Paris 1977-82, III, p. 50: § 17 rr. 10-11.

[4] Pseudo-DIONIGI AREOPAGITA, De div. nom. c. 4 § 30 (PG 3, 729 C). Testo d'adagio; cf. traduz. lat. in Dionysiaca I, pp. 298-99.

[5] Vedi l'ampia esposizione e tentativo di concordare, tramite debite distinzioni, Agostino ed Aristotele in ENRICO DA GAND, Quodl. I, 20 (ed. Venetiis 1613, ff. 29r-3Ov; ed. R. Macken, Leuven 1979, 166 ss).

[6] «per accidens»: ENRICO DA GAND, Quodl. I, 20: «Videtur ergo Philosophus dicere quod propter fructus virtutis magnae magis eligendum est in illa hora mori quam vivere diutius in minoribus virtutibus, ut non praeeIigat mortem vitae nisi per accidens, praeeIigendo virtutem virtuti; per accidens autem malum poenae, adiunctum maxime bono, praevalet alicui bono iuncto cum inferioribus bonis; multo fortius ergo potest praeeligi malum mortis propter maximum bonum ex ipso, ipsa vita turpi et vitiosa» (ed. R. Macken, Leuven 1979, 167; ed. Venetiis 1613, f. 30rb).

[7] Alla medesima obiezione Giovanni da Parigi ed Erveo Nédellec rispondono: «Ad primum ergo dicendum quod bene probat quod aliquis potest appetere non esse per accidens, in quantum appetit carere miseria; non autem probat quod possit appetere non esse per se» (Quodl. VIII, 8: Utrum creatura possit appetere non esse: in Quodlibeta Hervei, ed. Venetiis 1513, f. 150va; vedi sopra Quodl. I,4 nota 7, ed. a stampa p. 84 nota 49-67.


cathedra magistralis, e tre atti didattici: lectio (basata su un liber textus ufficiale), disputatio (disputa aperta a tutti), sermocinatio (sermone scolastico). Nota la preminenza della catteda: «Baccalarii qui legunt extraordinarie non ascendant cathedram propter reverentiam magistrorum», prescrive capitolo gen. Milano 1278 (MOPH III, 197/4-5); «Item ordinamus quod cursores Sententiarum in cathedra lectoris principalis non sedeant quando legunt», capitolo provinciale 1284 (ACP 68/30-31).
fine

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