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quis Remigius?

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2002-2010

Niccolò da Prato (2011)

Margherita Belli, Le stratificazioni metodologiche del termine "indemonstrabilis" e il dibattito "utrum theologia sit scientia", «Memorie domenicane» 42 (2011) 21-51.

Silvia Diacciati, Popolani e magnati: società e politica nella Firenze del Duecento, Spoleto (CISAM) 2011, pp. XXII-468. Rivevuto in dono dall'A., 7.IX.2015.

https://independent.academia.edu/SilviaDiacciati

Alessandro Ciandella, Per san Zanobi. Testi inediti del XIV e XV secolo, Firenze (Phasar Edizioni) 2012, pp. 116. Dono dell'autore, ricev. 17.XI.2012. Grazie di cuore!

Indice:

I - Sei sermoni di Remigio Girolami, pp. 7-82.

II - Una predica di Giovanni Dominici [1405], pp.  83-104.

III - Un discorso di Maestro Luca da San Gimignano [1449-51], pp. 105-113.

Premessa alla sezione Remigio (ometto le note in calce, nelle quali si rinvia ai miei lavori), pp. 7-9: «I sei sermoni di Remigio dei Girolami (1247-1319), dei quali presentiamo il testo, sono tra le pochissime composizioni omiletiche conosciute dedicate a san Zanobi e, forse, le più antiche che ci sono pervenute. L'analisi interna del manoscritto ha infatti fissato il sicuro termine ante quem del periodo aprile 1314 - agosto 1316 per la composizione del quarto sermone, mentre la menzione dell'Ottava della festa di Pentecoste nel quinto sermone fissa la stesura di quest'ultimo al 1317, in quanto in quell'anno la festa di san Zanobi cadde entro l'Ottava della Pentecoste.

I sei testi si leggono alle carte 401r-404r del manoscritto Conv. Soppr. D 1.937 "de sanctis et festis solemnibus" (conservato nella Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze e proveniente dal convento di Santa Maria Novella) e sono scritti da due mani diverse: un copista, cui si deve la redazione dell'intero manoscritto, e Remigio stesso, che, aggiungendo brani ed interi sermoni, ha riempito quasi completamente i margini delle carte.

I sermoni di mano di Remigio sono successivi alla redazione del testo principale e pertanto la loro numerazione potrebbe corrispondere anche all'ordine di composizione.

Alcuni sermoni prendono spunto dalla liturgia della festa di san Zanobi, che, ai primi del XIV secolo, era ancora in gran parte il "comune" di un santo confessore: il primo dall'epistola ed il sesto dal vangelo della messa. Il secondo sermone prende spunto dal passo di Matteo, usato sia per il vangelo della messa dei catecumeni, sia per il primo responsorio qualora la festa di san Zanobi fosse caduta dopo l'Ottava di Pentecoste. Il terzo sermone è ispirato dal testo agiografico della vita del Santo: la menzione del sereno transito di san Zanobi è il pretesto per una poco originale dissertazione sul tema del "ridere". Il quarto sermone invece è, a parer nostro, il più interessante ed originale, perché non sembra direttamente riferibile né alla liturgia specifica per san Zanobi (per lo meno a quella dei primi del XIV secolo), né ai testi agiografici. Evidentemente, ben prima della composizione dell'inno che poi sarebbe diventato il più famoso tra quelli usati per la festa di san Zanobi ("O flos colende"), doveva essere già consueta l'associazione tra il Santo ed un fiore. Il quinto sermone è collocabile nell'ambito del periodo liturgico della Pentecoste e della sua Ottava, sia per la glossa che esplicitamente lo data, sia per il contenuto "sapienziale", l'accostamento con san Zanobi in questo caso può dipendere dal fatto che la festa del Santo, il 25 maggio (prima della modifica post-conciliare che l'ha spostata al 10 maggio), cadeva frequentemente in quei giorni».

De sancto Çenobio. Sermo primus (= BNF, Conv. Soppr. D 1.937, ff. 402rb-403ra), pp. 11-20 (relativa trad. ital. del Ciandella, pp. 48-59):

Dedit illi sacerdotium gentis sue et beneficavit illum in gloria et circumcinxit illum çona iustitie, Ecc. 45[,8-9].

Verba ista leguntur in lectione quae habetur loco epistole in honorem beati Çenobij qui a çona dici potest, quamvis ultimum verbum scilicet et circumcinxit etc. intermictatur in lectione ab ecclesia, et loco eius quod dicitur in textu gentis sue dicatur ab ecclesia magnum. (...).

Sermo 2° (f. 403ra-b), pp. 21-23 (trad. ital., pp. 59-61):

Intra in gaudium Domini tui. Matt. 25[,21,23]. Verbum propositum potest exponi de beato Çenobio et de quolibet confessore, immo et de quolibet sancto iusto vel iusta, moriente et ad gloriam celestem tendente, congruit autem beato Çenobio de quo legitur qui quasi ridendo ivit ad celum. Ubi ostenditur que gloria illa habet 4 excellentes condictiones. (...).

Sermo 3s (ff. 403rb-404va), pp. 23-32 (trad. ital., pp. 61-68):

Ridebit in die novissimo. Prover. 31[,25].

Quod istud verbum prophetice dictum per Salomon bene conveniat beato Çenobio, satis monstratur per eius legendam in qua dicitur qui sublevatis in celum manibus oravit et se consignans, ita letus spiritum exalavit ut diceres ad patriam ridens, idest visibile aliis ridendo, rediret. Quomodo dicat sicut proprium canis est latrare et cetera, ita proprium hominis est ridere. Ubi notandum ad presens qui taliter est risus, scilicet peccatorum, iustorum in vita ista et bonorum in vita futura. (...).

«... poco originale dissertazione sul tema del "ridere"», commenta l'editore Ciandella a proposito di questo terzo sermone. Inclino verso il parere opposto: attività della predicazione liturgica che lancia e riflette su forme e ragioni del ridere lo vedo di notevole originalità, entro la cultura medievale e la letteratura sermonale. Dal riso spavaldo del trasgressore a quello furioso del farneticante, a quello asinino dell'invidioso, o a quello irrisorio di Sara (Gen. 18,13); dal riso del giusto per gioia interiore fino al riso dei beati, che una volta sì piangevano, ora però ridono (cf. Luc. 6,21)!

Sermo 4° (ff. 404va-405rb), pp. 32-37 (trad. ital., pp. 68-72):

Ego flos, Can. 2[,1]. Istud verbum congruit vere beato Çenobio ratione sexemplici. Et primo ratione humanitatis in quantum convenit omni viro, iuxta illud Iob 13 [= 14,1-2] homo natus et cetera qui quasi flos egreditur et cetera. Vide in sermonibus defunctorum de papa Clemente V° sermo [Ecc. 10,12] Omnis potentatus brevis vita. (...).

[ vedi mia ediz. integrale in ../remigio2/re1314.htm#Fir., apr. 1314 - ag. 1316, ricontrollata sull'originale]

Sermo 5° (ff. 403v-404v, tutto in margine, mano B), pp. 37-45 (trad. ital., pp. 72-81):

Numquid per sapientiam tuam plumescit accipiter extendens alas suas ad austrum, Job 39[,26].

Ad litteram verba sunt Domini de turbine redarguentis Job de presumptione quae se commendat et attolit de innocentia et bonis operibus et sapientia et conqueritur de pena quam sustinet, quasi iniuste agatur cum co. Sed secundum glossam gg [= Gregorii] mistice exponentem intelliguntur quolibet sancto qui ad modum accipitris se innovat flatu austri, idest Spiritus Sancii, intra cuius solepnitatis octavas sumus (...).

Sermo 6° (f. 404v, in margine sin., mano B), pp. 46-47 (trad. ital., pp. 81-82):

Ego sum pastor bonus, Io. 10[,11], in evangelio quod legitur in honorem beati Çenobii. Et qualiter verbum istud convenit Christo literaliter vel hystorialiter et singulariter, quia singulariter est iuxta illud Ps. [140,10] singulariter sum ego, scilicet verus Deus et verus homo; et singulariter pascit scilicet a se,  de se, et se propter se. Unde Io. 10[,16] vocatur unus pastor, idest singularis, et 1a Petri 5[,4] vocatur princeps pastorum, et singulariter est bonus scilicet essentialiter et integraliter sine omni mixtura malitie (...).

In quarta di copertina: «Alessandro Ciandella, nato a Firenze nel 1973, si dedica da molti anni, come ricercatore "privato", a studi dedicati al duomo di Firenze ed alla Chiesa fiorentina. Ha pubblicato, con Alessandro Bicchi nel 1999, Testimonia Sanctitatis. Le reliquie del Duomo e del Battistero di Firenze; e nel 2005 San Zanobi. Vita, reliquie, culto, iconografìa».

http://www.phasar.net/docs/SanZanobi.pdf

Eve Borsook, Painting for "the Most Noble City in the World", AA.VV., Florence at the Dawn of the Renaissance: Painting and Illumination, 1300-1350, Los Angeles (J. Paul Getty Museum), November 2012 - February 2013, pp. 11-75; paragrafo su Remigio in pag. 12.

A. Parenti, Parole e storie. Studi di etimologia italiana, Milano (Mondadori Education S.p.A.) 2012,  p. 141.

Elisa Brilli, Firenze e il profeta. Dante fra teologia e politica, Roma (Carocci editore) 2012, pp. 384. Ricevuto in dono dall'autrice, con amichevole lettera autografa, Paris 28.III.2013. Grazie! celatura

Indice, pp. 7-8. Abbreviazioni, p. 9. Prologo: Per una comprensione storica della Firenze dantesca, p. 13.

I. La storia di Firenze secondo la Commedia, p. 21

   1. I parametri del realismo fiorentino

   2. Tre variabili per un secolo di storia fiorentina

   3. "Dignità" esemplare e memoria cittadina

   4. Alla ricerca dell'origine della crisi fiorentina

   Excursus I. Un corollario: dalla presunta metanoia ai modelli bifronti

2. La civitas diaboli sub specie Florentiae, p. 121

    1. Quale «teoria ampia e negativa» della storia fiorentina?

    2. La «confusion de le persone» (Pd XVI 67)

    3-4. ... e la civitas confusionis (I): una Babele fiorentina fra partes e artes (DVE I vi 5-vii 8); (II): le epistole della stagione arrighiana

    5. Firenze e Sodoma

    6. La rotta di Montaperti e gli exempla di superbia punita (Pg XI-XII)

    7-8. L'anti Roma

    9-11. Campi metaforici e figurali: il corpo malato; la femminilità; l'isotopia infernale

    12. La «teoria» cacciaguidiana: la civitas diaboli e il saeculum

    Excursus II. Dante e Agostino: «A denti stretti»? Note sull'anti-agostinismo politico di Dante

3. Il profeta sub specie Dantis, p. 271

    1. La centralità di Firenze

    2. Florentinus et exul inmeritus

    3. Le radici boeziane dell'autobiografia fiorentina

    4. L'innesto profetico e l'"auteriorità" di Firenze

    5. Il senso della persecuzione e l'obbligo della parola

    6. Il profeta, la civitas diaboli e la redenzione del particolare

    7. La doppia autobiografia: Firenze e Beatrice

    8-9. Le condizioni testuali dell'armonizzazione

Epilogo. Armonie e dissonanze fra teologia e politica

Indici, p. 365.

Epilogo. Armonie e dissonanze fra teologia e politica, pp. 355-64:

«Questo lavoro ha analizzato il percorso di modellizzazione che investe Firenze nella produzione dantesca sotto tre angolature diverse ma convergenti. Innanzitutto, con gli occhi rivolti alla storia fiorentina quale è riscritta dalla Commedia, si è preso atto dell'approfondirsi del distacco di Dante dalla tradizione memoriale municipale che nondimeno costituisce un parametro essenziale della selezione dei reperti ammessi nel poema, ossia della loro dignità esemplare. Il percorso rielaborativo dantesco coinvolge anche il giudizio sulla storia patria e sin dall'inizio sollecita l'interrogativo sulle ragioni dello scadimento della compagine fiorentina (cfr. Cap. I). Se tale istanza è presente sin dalla redazione del VI canto dell'Inferno, il cammino prima di trovare una risposta confacente è lungo, al punto che l'ambiguità dei ritratti di alcuni protagonisti della generazione precedente a quella di Dante, nei canti xv e xvi dell'Inferno, può intendersi come il segno di una fase di elaborazione nella quale la volontà demistificatrice nei confronti della storia patria non è ancora supportata da una precisa nozione delle responsabilità fiorentine (cfr. Excursus I). Questa nozione, che sarà dispiegata nell'excursus mito-storiografico nei canti centrali del Paradiso, deriva a Dante da una mossa concettualmente e simbolicamente fondamentale: l'assimilazione di Firenze al paradigma agostiniano e medievale della civitas diaboli. La Firenze di Dante si apparenta alle altre rappresentanti di questa famiglia analogica medievale, da Babele a Sodoma alla civitas magna dell'Apocalisse. Dalla civitas diaboli medievale Firenze eredita inoltre una chiara funzionalità tipologica, che la eleva a figura storica della caterva impiorum, dunque dell'inferno, ma anche, |356| secondo l'ambiguità tipica di questa rappresentazione culturale, a figura del transeunte e del mondano. In sede ideativa, vi è più di una ragione per ritenere che la strada in questo senso sia stata aperta nella mente di Dante dalla messa in discussione di uno dei capisaldi dell'autorappresentazione fiorentina duecentesca: la pretesa assimilazione di Firenze a Roma, criticando la quale Dante arriva a formalizzare il caso fiorentino sulla falsa riga della Roma fusca della tradizione (sallustiano-)agostiniana, ossia di una delle più note rappresentanti della civitas diaboli medievale (cfr. Cap. 2). Non osta a quest'ipotesi la tesi, cara alla dantistica italiana, dell'anti-agostinismo politico di Dante. Ciò sia in ragione della fragilità di questo partito critico, che sembra confondere il pensiero di Agostino con gli agostinismi della fine del xiii e inizio del xiv secolo ben più di quanto abbia fatto Dante; sia perché l'allontanamento di Dante dal giudizio agostiniano sull'Impero romano non mina in alcun modo la validità delle categorie agostiniane, e più generalmente cristiano-medievali, laddove applicate a soggetti diversi da Roma (Excursus II). Da ultimo, si è considerato il senso della riproposizione del paradigma della civitas diaboli sub specie Florentiae ai fini della proposizione di sé in veste di profeta, dunque della costruzione autobiografica e autoriale dantesca. Mettendo a frutto il binomio propheta-civitas diaboli, Dante intreccia in modo sempre più saldo il proprio percorso di esule fiorentino con la rivendicazione dell'investitura profetica orchestrata nella terza cantica. Questa configurazione sostituisce, pur su un'ideale linea di continuità, quella ispirata al modello del sapiente sventurato di boeziana memoria che Dante aveva sperimentato nelle prime opere dell'esilio. La configurazione profetico-apostolica rende inoltre conto della nuova centralità acquisita da Firenze come deuteragonista del protagonista-autore del poema. D'altro canto, il profeta sub specie Dantis riordina a sé anche la configurazione autobiografica e autoriale che, plasmata secondo la parabola di peregrinatio e conversione, costituisce la fabula originaria del poema. L'operazione è per questo versante più complessa per la dissonanza che sussiste tra questi modelli laddove tradotti, come appunto è il caso dantesco, in schemi per organizzare i dati |357| biografici. Un'attenta tecnica di composizione testuale consente a Dante di riformulare il suo autoritratto senza necessità di retractationes evidenti. Il successo di quest'operazione è assicurato dall'attrazione che sussiste tra le rappresentazioni culturali del pellegrino penitente e del giusto perseguitato nell'immaginario dell'Occidente medievale; così come, e si tratta di un aspetto imprescindibile, dall'ambiguità strutturale della civitas diaboli medievale capace, anche nell'attualizzazione fiorentina, di significare al contempo la caterva impiorum che perseguita il novello profeta e il saeculum nel quale il peccatore era perduto prima di intraprendere il percorso salvifico (cfr. Cap. 3).

Questa generale proposta interpretativa, qualora condivisa, si presta ad alcune riflessioni. In conclusione, vorrei svolgerne tre che mi sembrano utili a chiarire l'interesse di questa ricerca sia nell'ambito degli studi danteschi sia in quello dello studio della tradizione culturale medievale. Come anticipato nel Prologo, queste osservazioni concernono la storicità interna della rappresentazione dantesca di Firenze e di sé; le specificità storico-antropologiche dell'autorappresentazione dantesca; quindi, l'apporto del paradigma medievale della civitas diaboli alla costruzione elaborata da Dante.

Seguendo le analisi precedenti forse qualche lettore avrà avuto il desiderio che fossero chiariti i termini cronologici della ricostruzione proposta. La difficoltà di rispondere a questo legittimo interrogativo è duplice. Per quel che è della cronologia interna del percorso ideativo dantesco la difficoltà deriva dal fatto che non si tratta di una direttrice di sviluppo unica bensì di molteplici che, pur convergenti, possiedono ciascuna un ritmo proprio. Facciamo degli esempi. La trovata compositiva geniale e già chiaramente orientata – per esempio, l'analogia tra Firenze e Sodoma istituita nei canti xiv-xvi dell'Inferno – probabilmente precede la comprensione e l'assunzione della direzione nella quale ci si stava muovendo ossia, in questo caso, la proposizione di Firenze come nuova civitas diaboli. Certamente, inoltre, questa trovata precede il tirarne quelle che, con il senno di poi, sembreranno conseguenze necessarie in sede eziologica – qui la retrodatazione |358| dell'origine della decadenza fiorentina alla politica espansionistica del Comune duecentesco e alla sua sfrenata libido dominandi. Lo prova che se la crisi fiorentina contemporanea è in questi canti chiaramente denunciata, le sue cause rimangono tuttavia opache, cosicché il passato della città è sì messo in dubbio, attraverso la condanna dei campioni del «ben fare», ma senza un chiaro capo politico d'accusa. A un altro livello, l'impiego di moduli e reperti che vanno nel senso della connotazione del protagonista come profeta – ad esempio la serie costituita dalla profezia di Brunetto, il grido «con la faccia levata» in risposta ai tre fiorentini illustri e l'elogio di quelli, la presunta allegoria in factis della rottura del «battezzatorio» in San Giovanni – non implica di per sé l'assunzione di una maschera autoriale di stampo profetico, come invece certamente, pur con alcune cautele, farà la voce narrante all'incipit di Inferno xxvi. Infine, e su ciò non v'è dubbio, i vari elementi attivi all'altezza della redazione dei canti xv-xvi dell'Inferno sono lontani dal richiedere all'autore una correzione della macrostruttura inizialmente progettata; di richiedergli cioè di distinguere Beatrice, alla quale ancora affida lo svelamento del futuro dell'esule, da Cacciaguida e di riorientare la fabula del poema trasformandola da un iter di conversione individuale, rappresentativo di quello dell'umanità peregrinante, a missione profetico-apostolica, che giustifica provvidenzialmente la redazione del poema.

Quando invece si scende sul terreno della cronologia esterna, la difficoltà è quella a tutti nota circa i tempi e le modalità di redazione del poema. Mi abita, peraltro, un certo scetticismo circa la possibilità di trarre inferenze e tradurre in cronologia esterna i dati dinamici messi in luce tramite la microanalisi del poema. Limitatamente all'oggetto di questa indagine, l'unica boa sicura è offerta dalle epistole v, vi e vii, dell'inverno 1310 - primavera 1311 nelle quali la sinergia tra la civitas diaboli sub specie Florentiae e il profeta sub specie Dantis è già chiaramente posta, pur con le cautele e con i limiti inerenti la produzione epistolografica. Non sorprende che appunto in questo frangente Dante focalizzasse ciò che, da questo momento in poi, dimorerà ai suoi occhi la colpa di |359| Firenze e la causa della sua crisi: l'insubordinazione all'ordo iustitiae assicurato dall'Impero e l'incestuosa promiscuità con la Curia pontificia. Raccordando questo dato con l'andamento della Commedia, se ne ricava che, per le ragioni già illustrate, questo punto di stacco si collocò con una buona approssimazione tra il xv-xvi canto dell'Inferno e l'incipit del xxvi, e più in prossimità del secondo che dei primi. Ciò osservato, non si può escludere l'eventualità che l'incipit del xxvi canto dell'Inferno e le innovazione che esso comporta – parodia manifesta della retorica romana del Comune duecentesco; assunzione di un modulo quale l'apostrofe distintivo del discorso profetico; vaticinio della distruzione che sta per abbattersi sulla città – possa essere un inserto posteriore al resto della tessitura del canto da datarsi alla revisione della prima cantica. Nonostante queste difficoltà, l'analisi conferma la storicità interna del poema e dell'elaborazione intorno a Firenze. Proprio dall'aver trascurato questa dimensione discendono gli appiattimenti e talvolta forzature che si sono recensiti da parte della critica.

Svolgiamo le altre considerazioni. Gli aggiustamenti, microcorrezioni e risemantizzazioni che si sono segnalati sono indubbiamente sintomo di tensione: una comprensione storica della rappresentazione di Firenze e dell'autorappresentazione di Dante richiede di chiarire il campo problematico nel quale questa ricerca si situò, valendo al contempo da osservatorio privilegiato per apprezzare alcune delle tensioni che attraversano più generalmente la riflessione e la produzione dantesca.

La tensione tra il patrimonio culturale municipale e la concezione politica elaborata da esule è, non serve dire, uno dei motori principali del percorso che si è ricostruito. Questa tensione non si risolve in modo linearmente dialettico, come la tesi della metanoia vorrebbe, attribuendo persino al poema la messa in scena dell'affrancamento del protagonista dalla tradizione municipale. Il patrimonio culturale municipale permane una risorsa attiva della riflessione e dell'invenzione dantesca così come la città che, nel pullulare di storie e memorie, costituisce un personaggio stabilmente presente all'immaginazione ultramondana. Come |360| notato da Passerin d'Entrèves e da altri dopo di lui, parimenti fiorentino e comunale è il segno dell'ideale civico dantesco e il correttivo nel senso della rivendicazione del benessere temporale che esso apporta alla trascendenza dell'ideale della cittadinanza cristiana. Pure, si noterà che se questa tensione raggiunge un equilibrio fecondo, senza approdare alla negazione del particolare comunale e bensì mettendone a frutto i germi culturali in prospettiva ormai universalistica, ciò è anche per il tramite della riscoperta del paradigma scritturale e teologico della civitas diaboli. È cioè in ragione di tale formalizzazione che Dante riesce, archiviato l'astratto cosmopolitismo della tradizione protrettica così come il contemptus d'ispirazione ascetica, a rendere la materia locale e il suo proprio vissuto portatori di sensi universalmente cristiani.

Non meno determinante è la tensione, nella riflessione del Dante maturo, tra impostazione filosofica e teologica del problema politico. L'indagine fiorentina ha permesso di portare alla luce un dato non rimuovibile. A Dante si deve, come ognuno sa, la dimostrazione della necessità della Monarchia universale; una dimostrazione supportata (anche) da philosophica documenta che forzano i presupposti aristotelici fino all'affermazione, certamente radicale nell'orizzonte filosofico e teologico coevo a Dante, della possibilità di una beatitudo huius vitae e della conseguente autonomia del potere temporale dallo spirituale in questa sfera. Lo stesso Dante, nondimeno, laddove si cimenta con il problema della demistificazione della città che l'aveva bandito e, questione se possibile più spinosa, dell'analisi delle cause della crisi fiorentina, sposa un paradigma tradizionale il cui impianto è teologico e i referenti antonomastici scritturali. Sussiste insomma un'asimmetria e una dissonanza tra l'orizzonte di riflessione e l'impianto argomentativo inerenti alla teorizzazione e rappresentazione della polarità positiva della riflessione politica dantesca, la Monarchia universale, e quelli propri invece alla teorizzazione e rappresentazione della polarità negativa di questa medesima riflessione politica, Firenze. Quest'asimmetria è a sua volta generata da una fondamentale asimmetria in merito alla |361| concezione dell'uomo, della societas humana, del suo funzionamento e dei suoi fini, ossia da una tensione tra quelle che schematicamente potremo definire un'antropologia cristiana e un'antropologia filosofica, o anche un'antropologia agostiniana e un'antropologia aristotelica.

Sarebbe erroneo interpretare tale asimmetria nei termini di uno storicismo astratto, presentando ad esempio la formalizzazione di Firenze come nuova civitas diaboli alla stregua di un involontario residuo teologico-medievale in uno dei più innovativi pensatori politici d'inizio Trecento. Al contrario, come si è visto, questa formalizzazione del caso fiorentino fu attivamente perseguita da Dante, che evidentemente la considerò la più atta al conseguimento degli scopi che il suo discorso si prefiggeva. Abbiamo insomma a che fare con un sistema complesso e disomogeneo. Per scelta metodologica, questo studio si limita a segnalare tale complessità e disomogeneità, spesso rimossa, e ad additarla come un tratto strutturante l'orizzonte dantesco e più in generale l'universo comunale tra Due e Trecento. La medesima complessità, per fare un esempio, fa sì che il Liber de regimine civitatum di Giovanni da Viterbo – che è in genere additato, non a torto, come uno dei primi prodotti della riflessione politica ispirata alle pratiche del regime podestarile della prima metà del xiii secolo e alla nuova cultura dittatoria – ospiti un lungo excursus, oltre che sulle virtù che il podestà deve possedere, sui vizi che deve evitare, quest'ultimo nutrito esclusivamente di auctoritates religiose medievali. Oppure che, negli affreschi lorenzettiani della Sala dei Nove nel Palazzo Pubblico di Siena (1338-39), un Veglio-Comune saviamente guidato e aristotelicamente ispirato trovi la sua contropartita in una Tirannide connotata apertamente come satanica, e forse anche per questa ragione spesso trascurata negli |362| studi sulle fonti lorenzettiane. Come a dire che, ormai aperta alla tradizione retorica classica e poi alla riflessione politica aristotelica e da queste arricchita, la cultura due e trecentesca non è perciò meno saldamente ancorata alla tradizione medievale per quel che concerne l'ardua rappresentazione del Male, un problema al quale solo l'antropologia cristiana continua a fornire risposte adeguate.

La dissonanza che si è registrata nella costruzione autobiografica e autoriale dantesca in merito all'articolazione delle rappresentazioni del peccatore penitente e del profeta perseguitato è invece del tutto interna all'orizzonte culturale cristiano-medievale o, se si vuole, del tutto interna a un'antropologia agostiniana. Ciò nella misura in cui tanto il paradigma di conversione quanto quello del profeta che si oppone alla civitas diaboli sono illustri codificazioni agostiniane. La dissonanza autobiografica dantesca si dà cioè tra modelli che appartengono entrambi alla tradizione cristiana medievale, anche attraverso la rilettura cristianizzata degli exempla classici, e che questa tradizione culturale mette entrambi, e contemporaneamente, a disposizione dell'individuazione del soggetto cristiano. In questa tradizione, i due modelli convivono e si attirano reciprocamente in un equilibrio concettualmente precario eppure duraturo. La dissonanza interna alla costruzione dantesca, che si è rilevata sulle orme di Gennaro Sasso, è innescata dal fatto che Dante, più radicalmente di quanto corrente al suo tempo, a un certo punto della sua carriera decise di ricalcare il modello del profeta perseguitato fino a mettere in scena un'esplicita investitura divina. Questa radicalizzazione del rifacimento scritturale sbilanciò la stadera in favore del profeta e richiese di raddrizzare |363| a posteriori la fisionomia del peccatore pentito. Per altro verso, il modo in cui Dante gestì questa dissonanza quando essa si delineò ai suoi occhi ossia, da un lato, suggerendo la propedeuticità dell'itinerario ascetico al profetico, dall'altro mettendo a frutto l'ambiguità strutturale della civitas diaboli, è anch'esso del tutto in linea con l'antropologia cristiana medievale.

Non resta che valutare il senso della soluzione approntata da Dante al problema che la condizione di esule gli pose. L'esilio, notava Mario Luzi, determina «una crisi insieme di autorità e d'identità: politica e personale. Dante [...] è costretto alla ricerca di una figura pubblica attendibile con cui presentarsi, e gli s'impone anche la necessità di una nuova immagine interna in cui fermamente riconoscersi». Gli inviti recenti a non isolare il caso dantesco dalla generazione intellettuale alla quale appartenne aiutano a meglio comprendere le ragioni della «crisi» indicata da Luzi. Non è tanto il banno di per sé a determinare tale crisi, poiché questa esperienza è del tutto ordinaria nel contesto dell'Italia centro-settentrionale due e trecentesca, bensì il fatto che lo sperimentasse una personalità straordinariamente sensibile al problema della legittimazione di sé e, credo opportuno aggiungere, che questa condizione si combinasse, nel caso di Dante, con altre alienazioni di più lunga data. La familiare, innanzitutto, per l'appartenenza a un casato di storia non illustre, di trascorsi recenti assai discutibili e di debolissime aderenze extra moenia; in seconda battuta, la professionale, poiché l'exul inmeritus, dal corso di studi anomalo e in gran parte autodidatta, iscrittosi trentenne all'Arte dei Medici e degli Speziali per intraprendere una carriera politica poi funesta, non possiede un mestiere socialmente riconosciuto: non è un clericus, né un medico, né un giurista che possa, intorno alla sua identità professionale, costruire se stesso e rapportarsi agli altri negoziando |364| le prestazioni offerte. Ora, a questa triplice alienazione, familiare, professionale e infine politica, fa fronte, nel contesto culturale immediatamente prossimo a Dante, un discorso letterario incapace di dar voce a tali problematiche. Il vissuto individuale è costretto cioè a confrontarsi con una patente lacuna degli strumenti rappresentativi codificati, eccezion fatta per l'ibrido erotico-politico della canzone sirventese e i consigli, a suo modo stanchi e per di più generalissimi, della tradizione protrettica classico-cristiana. Così contestualizzata, la ricerca dantesca si lascia rileggere come una quête per la rappresentabilità; più precisamente per la dicibilità del politico e la legittimazione di sé nell'orizzonte politico (da intendersi nel senso più ampio del termine). Una quête condotta in condizioni malagevoli mobilitando tutte le risorse culturali a disposizione, donde l'affiancarsi e l'intrecciarsi di modelli per via di assestamenti successivi e continui. Il risultato cui Dante approdò fu tanto arcaicizzante quanto, e straordinariamente, innovativo. Da un lato, la riscoperta del paradigma della civitas diaboli per il caso fiorentino e la fisionomia profetica che esso consentì di delineare per l'autore del «sacrato poema» reimmettono di forza la Commedia nell'alveo della più illustre tradizione scritturale e medievale. Dall'altro, così facendo, assicurano un ampliamento inusitato dell'orizzonte del dicibile storico-politico e fondano la prima articolata soggettività autoriale romanza».

Gran bel lavoro! Che a prima lettura mi proclama un'omissione: teologia e filosofia della polis - e suo esercizio - nella Firenze dei bianchi-neri in Remigio dei Girolami (corsivamente menzionato in pag. 246). Eppure nulla di più pertinente, per luogo e tempi, a scandagliare dislocazioni partitiche e dissonanze dottrinali circa la specifica materia discussa dalla Brilli (  I trattati politici di Remigio dei Girolami nella Firenze dei bianchi-neri, «Memorie domenicane» 16 (1985) 1-198: De bono comuni, Firenze 1301-1302; De bono pacis, Firenze maggio-giugno 1304; Sermones de pace). A meno che l'autrice... non si riservi congrui tempi per rimettere a prova la sua ammirevole competenza! Emilio Panella OP, Firenze, apr. 2013.

2013 ss ...

Remigio dei Girolami

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