Questa la Firenze d’inizio Trecento. Queste le situazioni e i casi con cui s’intrica e si commisura il discorso del De bono comuni e De bono pacís. Le vicende dei Girolami ne sono ovviamente soltanto uno spaccato, ma altamente esemplificativo della vischiosità delle lotte cittadite e soprattutto dell’occupazione e manomissione del potere politico. La proposta dei trattati di fr. Remigio avrebbe trovato resistenza perfino all’interno della sua famiglia, specchio fedele del ceto dominante della Firenze tardomedievale e dei suoi travagli: dalla tenace presa sulle istituzioni politiche alle aggregazioni consortili, alle spregiudicate operazioni creditizie, alle scissioni tra bianchi e neri, ai rapidi capovolgimenti del fronte di potere, alle ritorsioni politiche, ai bandi ed espropri dei beni. Certo, l’insuccesso nella cronaca della vita cittadina non toglie agl’interventi del frate fiorentino lo straordinario valore di testimonianza d’impegno etico e civile né esaurisce la portata teorica dei loro contenuti. Ma non si potevano ignorare - né tanto meno dislocare - i termini, anche minuti, entro i quali i trattati furono pensati e avrebbero dovuto riversare il loro impulso operativo. Tali termini pongono le coordinate all’esegesi degli stessi trattati.
Tentiamo semmai di riordinare in una ripresa di sintesi un discorso costretto o alla narrazione parallela nel caso delle ricerche sulla famiglia Girolami, o al tragitto a ritroso nel caso dei due trattati a motivo della loro subordinazione compositiva. I dati certi s’intrecceranno con interpretazioni ed eventualmente con proposte, la cui attendibilità varia di volta in volta secondo il valore della documentazione disponibile e che è stata fin qui raccolta tra testo e note.
Remigio insegna le Sentenze di Petro Lombardo in Saint-Jacques di Parigi tra 1297 e 1300. Il sermone Induamur arma lucis della domenica I d’Avvento, che fa menzione di Rinaldo da Concorezzo vescovo di Vicenza legato papale in Francia, è l’ultima testimonianza del soggiorno parigino. In dicembre 1300 la legazione di Rínaldo (che fra l’altro tratta anche la spedizione siciliana di Carlo di Valois) volge al termine, e il legato rientra in Italia tra dicembre 1300 e gennaio 1301; la data 29 novembre 1299 per il sermone ha molte più probabilità a suo favore che non la seconda possibilità 27 novembre 1300. La lettura delle Sentenze era ancora biennale in quel tempo, e poiché la presenza a Parigi nel 1298 è positivamente attestata, molto verosimilmente Remigio ha insegnato in Parigi negli anni scolastici 1298-1299, 1299-1300. A fine anno scolastico 1300 Remigio potrebb’esser rientrato in Firenze; qui è certamente a partire dall’11 agosto 1301, dopo aver preso parte al capitolo generale di Colonia del maggio dello stesso anno. Priore conventuale di Santa Maria Novella nel 1301 e 1302 è un frate eminente, Tolomeo dei Fiadoni da Lucca; negli Annales ricorderà i fatti fiorentini d’inizio Trecento di cui era stato testimone, ma la laconicità del racconto né aggiunge alcunché a quanto sappiamo da altre fonti né tradisce partecipazione di sorta. Remigio ritrova la città scissa tra le fazioni bianca e nera. Il calendimaggio 1300 è il primo grave segnale della degradazione delle lotte cittadine. Quando queste prevaricano i confini della rissa o della zuffa e investono la città mettendone a rischio la sopravvivenza politica, Remigio cittadino e teologo interviene. Compone il trattato Speculum in chiave allegorico-morale ma dagli evidenti riferimenti alla situazione fiorentina. Il trattato suppone che lo scontro tra le parti bianca e nera sia ancora in corso; sembra rispecchiare una situazione cittadina anteriore alla scissione dei neri del 1304 e agli affronti ad essa seguiti, e forse una situazione anteriore anche alla presa del potere da parte nera.
Papa Bonìfacio VIII segue con molto interesse l’evolversi della situazione in Firenze. A fine 1297 aveva già inviato in Toscana il legato cardinal Matteo d’Acquasparta per sollecitare appoggio alla crociata contro i Colonna. Matteo sarà ancora due volte, in qualità di legato, nella città toscana, in giugno-ottobre 1300 e tra dicembre 1301 e febbraio 1302, col compito di promuovere un accordo tra le parti in lotta. L’insuccesso è principalmente dovuto all’írriducibilità delle oligarchie delle due fazioni che, pur non sopprimendo le istituzioni repubblicane del governo delle arti, di fatto egemonizzano il potere cittadino. Ma resistenze all’intromissione papale nelle cose fiorentine, espresse sia nei consigli opportuni che nello stesso priorato, dimostrano anche che i guelfi bianchi ora al potere nutrono sospetti sulle vere intenzioni della mediazione bonifaciana. I sospetti si rivelano non infondati quando in concorrenza col paciaro papale Carlo di Valois, e non senza l’avallo di costui, parte nera, con a capo Corso dei Donati cui il papa aveva affidato cariche pubbliche nei territori pontifici, rovescia in novembre 1301 il governo dei bianchi e da gennaio 1302 dà inizio a sistematiche condanne, espropri, guasti di beni degli avversari politici. In occasione dell’entrata in Firenze del paciaro, tra 1° e 5 novembre 1301, Remigio tiene il sermone in ricevimento di Carlo di Valois; ma sorprendentemente, per un Remigio che interviene con ben tre trattati sulla questione delle lotte cittadine tra bianchi e neri, il sermone non fa parola della mediazione papale né del ruolo di pacificazione che Carlo avrebbe dovuto svolgere in Firenze. Vi si ríspecchia il clima politico di circospezione delle autorità fiorentine, in particolare dei priori bianchi in carica, perplessi tra l’onore da tributare all’inviato papale e la resistenza da opporre al rafforzarsi del partito avverso. Tra gli ultimi priori bianchi in carica, destituiti dai neri vincenti, vi sono Dino Compagni e Girolamo di Salvi del Chiaro nipote di fr. Remigio.
Al rientro in Firenze del capo dei neri Corso dei Donati, fanno seguito giorni di violenze, in città e contado, che gettano Firenze nell’arbitrio nei soprusi saccheggi malversazioni d’ogni genere. In relazione alla situazione cittadina susseguita al 5 novembre 1301, Remigio scrive il De bono comuni. Un trattato dall’impianto vigoroso in cui, oltreché lamentare la devastazione di Firenze, propone con tensione dottrinale e passione politica la ricostituzione stessa delle basi della convivenza sociale: il bene comune, superiore agli interessi di parte e dei singoli. L’orientamento teorico e la pressione della cronaca cittadina decantano l’assoluta preminenza del tutto sulla parte con tale rigore da far temere - così è parso a taluni - per la sorte della singolarità della persona.
Né prediche né trattati politici incidono d’abitudine sulle lotte sociali. Ieri come oggi. Il dinamismo dei conflitti, per quanto perverso, segue il suo corso. Mentre Carlo di Valois trae profitti pecuniari dagli espropri ed esazioni, i neri perseguono la politica dell’annientamento del partito avverso. Colpiti sono anche Girolamo, Chiaro e Mompuccio, figli di Salvi del Chiaro e nipoti di Remigio, che nei primi mesi del 1302 vengono confinatí nel ducato di Spoleto. Di qui si trasferiscono in quel di Venezia. In occasione d’un omicidio perpetrato in Firenze in novembre dello stesso anno, Girolamo e Mompuccio vengono accusati da Gherardo di Pagno dei Bordoni d’essere i mandanti del misfatto. I due (ma verosimilmente anche il fratello Chiaro) rientrano in Firenze tra fine novembre e 14 dicembre 1302 per comparire in tribunale e provare la propria innocenza; Mompuccio è assolto, Girolamo condannato e i suoi beni confiscati; parte di quest’ultimi sono occupati da Gherardo dei Bordoni.
Il trasferimento della curia papale da Roma a Perugia in marzo-aprile 1304 a opera del papa domenicano Benedetto XI, succeduto a Bonifacio VIII il 22 ottobre 1303, porta Remigio - ormai maestro in teologia - a insegnare nello studio del convento San Domenico di Perugia. Tradizione della politica culturale dell’ordine è assicurare al conventus curiae e studium curiae (cioè al convento e studio domenicano della città dove risiede la curia papale) personale altamente qualificato. Dalla primavera 1304 a tutto il 1305, e forse anche nel 1306-07, Remigio risiede e insegna in San Domenico di Perugia; nel lettorato fiorentino lo sostituisce fr. Giordano da Pisa.
■ Un’introduzione alla filosofia…, MD 12 (1981) 54-56.
Predicazione di fr. Giordano in Firenze: C. Delcorno, Giordano da Pisa e l’antica predicazione volgare, Firenze 1975, 46-48. Giordano da Pisa, Avventuale fiorentino 1304 [29.XI.1304 -7.II.1305], ed. a c. di Silvia Serventi, Bologna 2006; tema della scomunica nel primo sermone, 9.XI.1304 (pp. 64-70). Si noti come avvia le cose il codice Riccardiano 1268: «Prediche di frate Giordano de' frati Predicatori quando stava in Firenze per lettore de' frati» (pp. 59, 61). Si suole correntemente distinguere il "lettore" Remigio dal "predicatore" Giordano; più lettore il primo, più predicatore il secondo. In realtà entrambi erano lettori dello studium di Santa Maria Novella; oltre alla lectio, compito del lettore era anche la praedicatio. Del primo c'è pervenuto frutto d'insegnamento e di predicazione, del secondo solo la predicazione volgare, raccolta dai suoi ammiratori. L'uno e l'altro era contemporeamente e a pari titolo lettore e predicatore. I sermoni di Giordano trasmettono e volgarizzano non poco del contenuto delle sue lezioni scolastiche.
Quaresima 1303(?): «veziamo le devixione, le brighe, i odii, le tribulazione e le pestelenzie ne le zitate, quando le persone ama pur la propria utilittà e non guardano el bene del comune» (op. cit. p. 48). In Orsammichele 21.IX.1309: «Dunque ne chiama Cristo come medico perfetto, che in sé non ha nullo difetto, o da inodiare. Chiamane singularmente ad veniam, a perdonanza de’ peccati. Se si mettesse uno bando ch’ogni uomo di Firenze andasse colà, e saragli dimesso ogne suo debito, oh come ci andrebbono volentieri! Cotal bando non udii mai io. Se questo comune mandasse il bando che tutti gli sbanditi venissero in Firenze e saranno tratti d’ogni bando, oh come correrebbono, come ne sarebber piene le strade! E’ ci ne avrebbe tanti anzi vespero che parrebbe che ruscellassero» (Prediche, ed. D. Moreni, Firenze 1831, vol. II, 49-50). La grande amnistia degli sbanditi di fatto ci sarà due anni dopo, 2.IX.1311: ASF, Capitani di parte guelfa, numeri rossi 20, Libro del chiodo pp. 137-49.
Ma le cose di Firenze non sono messe da parte. Queste del resto, gestite dai neri, non prendono una piega rassicurante: la scissione tra i capi neri di febbraio 1304 semina nuova violenza e nuova distruzione nelle vie della città. Niccolò da Prato, già provinciale Romano dei frati Predicatori e ora cardinale ostiense, è inviato legato pontificio da Benedetto XI con lo scopo di tentare la riconciliazione di Firenze, tramite un eventuale accordo che regolasse la situazione dei condannati e sbanditi. La legazione, da marzo a giugno 1304, registra un totale insuccesso, sia in Prato che in Firenze. Verosimilmente in supporto, certamente in coincidenza con la mediazione papale di Benedetto, fr. Remigio compone in Perugia il De bono pacis tra fine maggio e metà giugno 1304; certamente dopo il 12 maggio e verosimilmente prima del 21 giugno, data della lettera papale Rex pacificus che pone fine all’intervento di Benedetto XI nelle cose di Firenze. Il trattato propone la pacificazione cittadina tramite il condono dei reati d’esproprio, concordato dalle autorità pubbliche anche contro la volontà dei singoli, fossero pure ecclesiastici, quale controparte del rientro degli sbanditi. La renitenza dei neri al potere, così come vanifica la mediazione diplomatica di papa Benedetto, rende parimenti inefficace la proposta del De bono pacis.
Tramontate le speranze che il nuovo papa francese Clemente V (eletto il 5 giugno 1305) trasferisse la propria residenza in suolo italiano, il convento e lo studio domenicano in Perugia perdono il prestigio di conventus curiae. Remigio rientra a Firenze; la prima testimonianza positiva della residenza fiorentina è del 29 luglio 1307. Priore di Santa Maria Novella nel medesimo anno è fr. Giovanní di mr Ruggeri dei Tornaquinci. Il 26 luglio 1307 i Girolami di messer Alberto di Leone perfezionano l’atto di pace con due Tornaquinci, i quali avevano aggredito e ferito nel 1304 Cardinale di mr Alberto. Costui e il fratello Leoncino avevano sposato la causa dei guelfi neri e occupato cariche pubbliche durante il governo nero. Le ragioni dell’affronto fra i Tornaquinci (neri anch’essi) e i Girolami figli del giudice mr Alberto di Leone vanno ricercate nella scissione dei neri di febbraio 1304; in quell’occasione - secondo la testimonianza del Compagni (III, 2-3) - i magnati Tornaquinci tennero per la fazione di Corso dei Donati «il Barone», mentre gli esponenti del popolo grasso si schierarono con la fazione di Rosso della Tosa. La morte del Donati e di Gherardo di Pagno dei Bordoni il 6 ottobre 1308 fa scemare il clima d’anarchia instaurato in città dalla ristretta oligarchia dei capi neri. Il 26 dello stesso mese Filippo del fu Girolamo di Salvi del Chiaro dei Girolami ottiene il riconoscimento d’innocenza del padre Girolamo - deceduto nel frattempo - e il reintegro nei beni del padre. Tra 1308 e 1311 scompaiono, e quasi tutti per morte violenta, i capi delle due fazioni nere, protagonisti degli anni del terrore e del sopruso. La città-comune della borghesia mercantile ha tenuto alla prova; ha ipotecato anzi molto futuro alla propria sopravvivenza.
capitoli provinciali |
1295 Síena |
1296 Vterbo |
1297 Perugia |
1298 Pisa |
1299 Pistoia |
1300 Orvíeto |
1301 Todi |
1302 Perugia |
1303 Spoleto |
1304 Città di Castello |
1305 Rieti |
1306 Siena |
1307 Foligno |
1308 Perugia |
1309 Firenze |
. . . |
1312 Lucca |
1313 Orvíeto |
1314 Siena |
1315 Arezzo |
. . . |
1318 Firenze |
Negli anni successivi fr. Remigio terrà sermoni funebri per molti personaggi di primo piano delle lotte cittadine tra bianchi e neri: Lottieri della Tosa, Rosso di Gottifredi della Tosa, Vieri di Consiglio dei Cerchi, Corteccione dei Bostichi, Ruggeri dei Buondelmonti. E terrà sermoni in morte di frati di Santa Maria Novella le cui famiglie avevano preso parte attiva nelle medesime lotte: Tornaquinci, Ardinghi. Il convento mendicante, a matrice urbana, non poteva del resto rimanere immune dal contagio cittadino. Tra 1299 e 1306 nessun capitolo provinciale dei frati Predicatori della provincia Romana è tenuto in Toscana; tutti nelle città del Patrimonio di San Pietro. Semplice coincidenza? Non pare. Il capitolo provinciale del 1302 era stato convocato in Firenze per il 22 luglio; di fatto fu tenuto in Perugia (MOPH XX, 142-43); in Firenze era ancora in corso la repressíone dei bianchi da parte dei neri, che trascinava a stato d’emergenza anche le altre città toscane. Dal 1304 i capitoli provinciali danno voce al contagio: le lotte guelfo-ghibelline, nella versione aggiornata dei bianchi e neri, hanno attecchito anche nei conventi. I definitori fanno del loro meglio per porvi riparo. Palesemente con poco successo, se il medesimo testo del capitolo Città di Castello 1304 è ripreso quasi alla lettera nei capitoli successivi fino al 1312. Dal 1313 al 1315 la voce si attenua, poi tace del tutto. Sono i medesimi ritmi di tempo dei travagli della città.
Città di Castello 1304: «Item ad evitanda pericula, turbationes et scandala fratrum et conventuum que ex aliquorum malitia accidisse sentimus, providentes et precavere volentes, ne in posterum similia attententur in nostre religionis preiudicium et iacturam, in virtute sancte obedientie precipimus monentes primo secundo et tertio in hiis scriptis ut nullus frater terrarum rectoribus officialibus seu quibuslibet personis aliis extra obedientiam nostri ordinis constitutis per se vel per alium, verbo vel scripto, procuret quod ipse vel alius frater ponatur in aliquo conventu seu quovis officio, aut amoveatur ab eis aut impediatur ne libere possit esse in illis sub quocumque partialitatis titulo, scilicet Guelfe vel Gibelline, albe vel nigre, sive quocumque alio nomine seculariter nuncupetur. Si autem per aliquem fuerit contrarium attentatum, ipso facto contra talem vel tales excommunicationis sententiam ferimus in hiis scriptis... » (MOPH XX, 149-50).
■ Il medesimo testo, con leggeri ritocchi, in CP Siena 1306, Foligno 1307, Firenze 1309, Orvieto 1310, Lucca 1312 (ib. XX, 161-62, 164-65, 172-73, 176, 185). CP Orvieto 1313 (MOPH XX, 187-88): solo un breve richiamo (in cui non compaiono più i termini guelfi-ghibellini, bianchi-neri) al testo CP Lucca 1312; e così in CP Siena 1314 (p. 191), Arezzo 1315 (p. 195). A proposito delle scissioni d’inizio Trecento, Dino Compagni I, 22 scrive: «Divisesi di nuovo la città negli uomini grandi, mezani e piccolini; e i religiosi non si poterono difendere che con l’animo non si dessono alle dette parti, chi a una chi a una altra».
In Santa Maria Novella di Firenze, la parabola discendente dei capi neri ha un’appendice ecclesiastica. Tra i frati e il clero secolare scoppia nel 1311 un’infocata lite sui diritti di stola delle esequie e sulla proprietà dei panni preziosi della pompa funebre: «roba de scarleto foderata de variis». Scarlatto e vaio, simboli dell’opulenza del mondo delle corporazioni delle arti e dei conflitti sociali della Firenze tardomedievale. Inconsapevoli istigatori della lite sono, dalla bara, Manetto degli Scali, Betto dei Brunelleschi e Geri di Cardinale. Il primo di fede bianca, condannato e sbandito nel 1302; i nemici credettero di sorprenderlo nel sonno e d’infilzarlo nel materasso: «e cercando di lui, fino la paglia de’ letti con ferri fororono» (Compagni II, 25). I secondi di fede nera.
■ Per il ruolo di mr Manetto degli Scali nei conflitti bianchi-neri ib. I, 22; II, 5. 16. 22. Vien condannato insieme ai Cerchi il 5.1V.1302: «d. Manectum condam Spini de Scalis» (ASF, Capitani di parte guelfa, numeri rossi 20, Libro del chiodo p. 16). Era stato capitano di Pistoia nel 1295 (Arch. di Stato di Pistoia, S. lacopo 1, f. 171v: 2.V.1295; f. 199r: 11.V.1295). Gli Scali sono grandi banchieri guelfi, esuli a Lucca dopo la sconfitta di Montaperti (1260), finanziatori insieme ai Cerchi dell’impresa angioina in Italia; denunciano gravi danni subìti durante il periodo ghibellino nel Liber extimationum (1269); dichiarati magnati nel 1293, non ricoprono cariche pubbliche; con parte bianca a inizio Trecento. Fr. Remigio ci ha lasciato un breve discorso di ringraziamento per il pranzo offerto ai frati da Dante e Branca, figli di Cante (o Cavalcante) degli Scali, in qualità di eredi di mr Iacopo degli Scali (cod. G4, f . 357ra-b).
■ Di fede nera. Geri di Cardinale illustra il caso d’una fortuna politica tutta personale, senza il supporto (almeno per quanto è dato sapere) del clan consortile. Del popolo di S. Cecilia (in Via Vacchereccia, demolita a fine ‘300 per far posto alla piazza della Signoria), è priore per il sesto di Porta Duomo per ben sei volte: 1288, 1294, 1298, e nel periodo del governo nero ag.-ott. 1303, dic. 1305 - febbr. 1306, ag.-ott. 1310 (Stefani rubr. 174, 207, 212, 241, 254, 274) ed è attivo nei consigli opportuni. A inizio Trecento risulta iscritto all’arte del cambio (ASF, Arte del Cambio 6, f. 11v; 8, f. 2v). Aveva poderi nel popolo S. Stefano in Pane (ASF, Notar. antecos. 3140 (già B 2126), f. 133r: 23.V.1304) e di S. Maria a Quarto, qui confinanti col podere lasciato da donna Bruna al figlio fr. Iacopo di Simone di mr Biliotto dei Donati (ASF, S. Maria Novella 28.VIII.1300; 1.IV.1308: v. sopra nota 46); in quest’ultimo documento, il 1° e 21.IV.1309, Geri è degli ufficiali preposti ai beni degli sbanditi e condannati. Il 6.VII.1305 nomina procuratori per riscuotere grano per cavallate «de quibuscumque fructibus et redditibus bonorum et possessionum rebellium et condempnatorum» (ASF, Notar. antecos. 3141 (già B 2127), f. 12r). ASF, S. Maria Novella 21.IV.1296: Geri e Vanni fratelli e figli del fu Cardinale, del popolo S. Cecilia, attestano d’aver ricevuto da Lapo del fu Lotteringo del popolo S. Frediano, a titolo di dote di Tinga figlia di Lapo e promessa sposa di Geri, beni di corredo stimati 479 fior. d’oro; segue (22.1V.1296) consenso matrimoniale. Tra i testi Mazzetto di Iacopo dei Bacherelli, lo stesso che dona a fr. Remigio per il convento domenicano 10 fior. d’oro «de incertis » (ASF, S. Maria Novella 151.1337: Studio 224). Il valore della dote, è molto alto a confronto con i dati segnalati in M.D. Nenci, Ricercbe sull’immigrazione dal contado alla città di Firenze nella seconda metà del XIII secolo, «Studi e ricerche» 1 (1981) 160-61. In Necr. I, 311-12, dietro Fineschi 313, Geri è fatto erroneamente diventare figlio di Cardinale dei Tornaquinci.
Betto dei Brunelleschi, uno dei capi più eminenti dell’oligarchia nera. Dino Compagni ne fa oggetto d’uno dei grandi ritratti che drammatizzano le ultime pagine della Cronica:
«Messer Betto Brunelleschi e la sua casa erano di progenie ghibellina. Fu ricco di molte possessione e d’avere; fu in grande infamia del popolo, però che ne’ tempi delle carestie serrava il suo grano, dicendo “O aronne tal pregio, o non si venderà mai”. Molto trattava male i Bianchi e i Ghibellini sanza niuna piatà, per due cagioni; la prima, per esser meglio creduto da quelli che reggevano; l’altra, perché non aspettava mai di tal fallo misericordia. [...]. A tanto male s’era dato che non curava né Dio né ’1 mondo, trattando accordo co’ Donati, scusando sé e accusando altri. Un giorno, giucando a scacchi, due giovani de’ Donati con altri loro compagni vennono a lui da casa sua e fedironlo di molte ferite per lo capo, per modo lo lasciarono per morto: ma un suo figliuolo fedì un figliuolo di Biccicocco, per modo che pochi dì ne visse. Messer Betto alquanti dì stette per modo che si credea campasse; ma dopo alquanti dì, arrabbiato, sanza penitenzia o soddisfazione a Dio e al mondo, e con gran disgrazia di molti cittadini, miseramente morì [8.III.1310/11]: della cui morte molti se ne rallegrorono, perché fu pessimo cittadino» (COMPAGNI III, 39).
Qui nessuna bandiera di parte presume il riscatto dei misfatti. «Fu pessimo cittadino». Non aveva asserito, Remigio, «si non est civis non est homo»?
La lite dei frati aggiunge ironia alla tragedia. Neppure le esequie propiziano la pace ai nemici bianchi e neri di Firenze.
■ Per la lite tra domenicani e clero secolare cf. Necr. I, 311-14; II, 423-24; docc. in FINESCHI 334-40; «roba de scarleto foderata de variis» (ib. p. 336 = ASF, S. Maria Novella 23.VI.1311). Sui Brunelleschi v. F. CARDINI in ED I, 707-08 (Betto); I, 708 (Brunetto); in DBI XIV, 532-34 (Betto di Brunello); XIV, 345-47 (Francesco di Betto); XIV, 547 (Ottaviano di Betto di Brunello). Ma varianti di talune forme onomastiche, ricorrenti alternativamente nei documenti, hanno indotto seri dubbi sull'identità di personaggi di notevole importanza storica e letteraria. Si notino i seguenti dati: «Iohannes qui Vanni dicitur, et Burnectus qui Bectus vocatur, fratres condam d. Burnetti de Brunelleschis» (ASF, Notar. antecos. 17563, f. 44r: 2.VIII.1276). «Vanni et Bectus filii quondam d. Brunelli de Brunelleschis» (La pace 236: 22.II.1280). «Lapus filius condam d. Brunelleschi de Brunelleschis, qui Lapus Donzellus vocatur,... vendidit... dominis Iohanni et Burnetto fratribus fillis olim d. Burnetti de Brunelleschis» (ASF, Notar. antecos. 3140, f. 5v: 20.XI.1300). «d. Tessa vidua uxor condam Uberti Giandonati de Infangatis et filia condam d. Burnetti de Brunelleschi» (Notar. antecos. 3141, f. 35v: 10.III.1306/7). «de voluntate d. Ottaviani filii dicti d. Becti» (ASF, S. Maria Novella 23.VI.1311 a quaderno, fase. 2°, f. 4r: testimonianze nella lite tra frati e clero secolare). «d. Ottavianus filius condam d. Burnetti de Brunelleschis» compromette, per sé e per i suoi fratelli Francesco e Ciampolo, in una lite sotto l'arbitraggio di Taddeo del fu mr Ildebrando del Cerreto e di mr Simone del fu mr Rosso della Tosa (ASF, Notar. antecos. 3142, ff. 12r-13v: 15.V.1316). Dal che sembra doversi ricavare: Brunello detto anche Brunetto, morto anteriormente ad agosto 1276, è padre di Vanni (o Giovanni), di Brunetto detto anche Betto, e di Tessa. Figli di Betto=Brunetto († 1311) sono Ottaviano, Francesco e Ciampolo. Dei sei figli di Tessa di Brunello=Brunetto e di Uberto degli Infangati menzionati in Notar. antecos. 3141, f. 35v (10.1II.1306/7), Giandonato testimonia nella lite dei frati (FINESCHI 334, 338). Molti i Brunelleschi sepolti in S. Maria Novella: Liber mortuorum (MD 1980, 29-187 passim).
ASF, S. Maria Novella 10.VI.1311 a quaderno, conferma identità di "Brunetto detto anche Betto"; le due forme antroponimiche si alternano nel medesimo documento: "d. Bectus" (ff. 1v, 8r), "d. Burnectus" (ff. 7r ss).